mercoledì 16 aprile 2014

Questione meridionale

Qualche tempo fa si è parlato del cosiddetto "referendum" promosso in Veneto per propugnare un'eventuale indipendenza, con risultati (dichiarati dagli organizzatori) tanto clamorosi quanto dubbi. Poi è arrivato l'arresto dei "secessionisti", tra cui un compaesano.
Prendo lo spunto da queste notizie di cronaca per farmi qualche appunto sullo "stato dell'arte" di ciò che penso sulla innegabile forbice tra il Mezzogiorno e il Settentrione dell’Italia. La mia opinione è piuttosto articolata e – devo dire – non molto chiara.

LE CAUSE

Le cause della perdurante arretratezza del Mezzogiorno secondo me sono molte e varie, ma hanno in comune il fatto di essere perduranti, incancrenite e di assommarsi in circoli viziosi.
Ci sono cause di ordine culturale, dovute a una minore scolarizzazione fin dai tempi dell’Unità, che nel tempo si è trasformata in una scolarizzazione di minore qualità rispetto al resto del Paese (basta vedere i risultati dei test Invalsi o Pisa).
Ci sono cause di ordine pratico: il territorio è difficile e sconnesso, la mancanza di pianura rende le infrastrutture più costose e complicate, specialmente in un Paese basato sul trasporto su gomma. Secondo me questo fatto può spiegare, almeno in parte, il fatto che il Veneto, che “partiva” in condizioni simili al Mezzogiorno (terra di povertà e di emigrazione fino al secondo conflitto mondiale), ha agganciato il boom economico, mentre il Sud non ce l’ha fatta.
Ci sono cause di ordine sociale: la mentalità della ricerca del posto pubblico come prima opzione, la minore imprenditorialità, la scarsa qualità delle classi dirigenti, che perpetuano questo sistema assistenzialistico per trarne vantaggi.
Ci sono cause di ordine pubblico: la presenza delle mafie.

Queste cause si intrecciano in un turbine di circoli viziosi: le mafie condizionano la classe dirigente, la quale non ha alcun interesse a stimolare l’uscita dall’assistenzialismo. I giovani, sapendo che non c’è lavoro, non sono stimolati a intraprendere, e magari nemmeno a studiare troppo. Gli insegnanti – che tra l’altro escono da un sistema di formazione già scadente di suo – sono scoraggiati di fronte alla dispersione scolastica e alle difficoltà ambientali, e la qualità della didattica cala. La mancanza di prospettive porta un certo numero di persone a rivolgersi direttamente o indirettamente alle reti mafiose e paramafiose. E via peggiorando.

I POSSIBILI RIMEDI

Ho le idee ancora più confuse su come si potrebbe tentare di uscire da questa situazione. Diciamo che mi vengono in mente due approcci, entrambi irrealizzabili.

Il primo approccio è quello dello shock culturale. Preso atto che il problema si può risolvere solo a partire dalle generazioni più giovani, si tratta di curare maniacalmente il sistema scolastico, dalle elementari all’università. Costruire scuole nuove, non fatiscenti. Incentivare gli insegnanti migliori d’Italia a trasferirsi a insegnare al Sud, con stipendi elevati e premi ad hoc. Invitare professori anche dall’estero per le università meridionali. Far viaggiare i giovani, con vacanze studio e borse Erasmus.
Naturalmente per fare ciò sarebbe necessario un fiume di soldi, di cui non si vede nemmeno l’ombra. Per di più queste risorse andrebbero impiegate per almeno un decennio praticamente a fondo perduto, senza ricadute di breve termine.
Supponendo comunque di trovare la caverna di Alì Babà e di reperire i soldi, resta il fatto che l’ammontare di denaro convogliato al Sud in un secolo e mezzo di questione meridionale non è indifferente, eppure non è servito a nulla: sarebbe quindi necessario commissariare tutte le istituzioni al di sopra dei Comuni (e anche qualche Comune sopra i 15000 abitanti, mi sa) con persone affidabili e con nessuna commistione locale. Una cosa che sa molto di colonizzazione, ma viste le esperienze passate sarebbe necessaria per garantire che i soldi arrivino a chi di dovere.

Secondo approccio: sink or swim. Visto che un grosso problema è costituito dalla classe dirigente, si procede ad una cura shock che la interpelli direttamente laddove fa più male, ovvero nel portafoglio. Si potrebbe attuare una versione spinta del federalismo, parametrando i trasferimenti dallo Stato alle Regioni alla spesa delle regioni virtuose, in ogni campo. Quanti soldi pro capite spende la Lombardia o l’Emilia per la sanità? Il trasferimento statale per la voce sanità sarà pari a questo tanto più al massimo un 10%. E così per tutti i campi. Al più si può pensare a un fondo perequativo in funzione del reddito pro capite regionale (le regioni si gestiscono anche con le tasse, quindi quelle dove si guadagna di meno hanno meno entrate). Ipotizzando di avere la cornucopia si potrebbero addirittura addossare allo Stato i debiti pregressi delle Regioni, in modo da far partire tutti sullo stesso piano. A quel punto i politici locali dovranno far quadrare i conti seguendo l’esempio dei colleghi più virtuosi, non avranno più la possibilità materiale di crearsi consenso con regalie ed assistenzialismo diffuso, e se non riusciranno a lavorare bene si spera che ci sarà una diffusa consapevolezza della necessità di una scossa.

Il problema è che un approccio del genere sarebbe efficace solo se si riuscisse a tenere il punto sui trasferimenti, non cedendo alle sirene delle lamentele, e questo si potrebbe fare solo a prezzo di una disgregazione non solo pratica, ma anche giuridica del Paese.
Supponiamo infatti che non si riesca ad implementare una buona gestione: ad un certo punto i soldi finiscono e – poniamo – la Calabria bussa a soldi per il suo bilancio sanitario. Roma risponde di no, e gli ospedali di Catanzaro riducono i turni all’osso. Ci sono però (per fortuna) dei diritti costituzionalmente garantiti a tutti i cittadini, tra cui quello alla salute. Probabilmente se un cittadino calabrese facesse qualche genere di ricorso per vedersi garantite delle cure, qualche tribunale finirebbe per obbligare lo Stato a fornire i soldi, pur deplorando l’amministrazione regionale “cicala”.
Per evitare questa situazione, l’unica possibilità sarebbe quella della secessione, come desideravano i promotori del fantomatico referendum veneto da cui siamo partiti. Se si è nello stesso Stato i diritti ai livelli di prestazioni essenziali dovranno essere comunque garantiti anche a fronte di sprechi e malversazioni: i cittadini non possono subire il “castigo” per le colpe dei loro amministratori.

Ecco quindi che delle due terapie nessuna è possibile, la prima per i costi, la seconda perché ad oggi è tabù. Poi se davvero fra 50 anni ci saranno gli Stati Uniti d’Europa può essere che gli Stati nazionali perderanno il senso di esistere, e davvero le regioni o macroregioni potranno rapportarsi direttamente con Strasburgo. Allora si potrà forse ragionare nei termini di un’autonomia locale responsabilizzata.

A margine di questa dissertazione, qualche riga anche sul turismo, che dovrebbe essere la grande ricchezza del Sud e dell'Italia intera. Io non sono un esperto del settore, non ho idea di quanto potrebbe essere il fatturato massimo ipotizzabile, di come si faccia a promuovere il turismo, ad attirare visitatori e via dicendo. Per di più non sono mai stato a sud del Lazio. La mia impressione, però, è che in generale in Italia ci sia la tendenza ad accontentarsi di quello che c’è, dei turisti che già vengono perché l’Italia è l’Italia, senza valorizzare le risorse. Dove c’è meno si valorizza di più: io ho girato parecchio il Paese, ed ho trovato servizi turistici migliori in Friuli, in Trentino, alle Cinque Terre e nella provincia toscana che a Firenze e Roma. Mi pare uno spreco incredibile di risorse. Non è possibile che la più bella città del mondo – Roma – non sia la più visitata, avendo anche il bonus del turismo religioso.

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