giovedì 10 aprile 2014

O tempora o mores

Le sentenze della magistratura, in questi giorni, stanno intervenendo su diversi temi etici.

Un giudice di Milano scrive una sentenza sull'"utero in affitto" che
fa riferimento, tra le altre cose, all’«avanzamento della tecnologia» che rende la «definizione» di «maternità» ormai «controversa». E non è infatti una valutazione etica quella espressa dal magistrato, ma la registrazione di una realtà in continuo mutamento: quella della «contrattualizzazione delle forme di procreazione»

Posso dire che parlare di "definizione di maternità controversa" mi sembra abbastanza fuori da ogni logica? Che la "contrattualizzazione delle forme di procreazione" non mi pare un elemento di garanzia per nessuno (donne in posizione di debolezza, differenze tra posizioni patrimoniali di chi cerca di avere accesso a queste "soluzioni", figli che potrebbero avere il diritto di conoscere l'utero che li ha generati, problemi di privacy della "mamma surrogata", suo eventuale diritto a prendere contatto con il figlio)?

La corte costituzionale ha ammesso la fecondazione eterologa.
Posso dire che non considero la maternità/paternità un diritto, non se lede i diritti di altre persone (gli embrioni che muoiono nel processo, o in questo caso il diritto di un figlio di sapere chi è il padre)?
Posso dire che forse bisognerebbe rendere molto più semplici le pratiche per le adozioni?
Posso dire che trovo contraddittorio uno Stato in cui la giustizia può imporre test del DNA per accertare paternità negate (quindi considerando il vero padre chi mette il seme, indipendentemente da chi poi ha cresciuto il bambino: prevale l'aspetto genetico) e contemporaneamente permette la fecondazione con il seme altrui, assegnando la paternità all'uomo che crescerà il bimbo con la madre (prevale l'aspetto educativo della genitorialità, con quello genetico assolutamente ininfluente)?

Un terzo giudice ha ordinato la registrazione legale in Italia di un matrimonio gay contratto a New York.
Cosa penso del matrimonio gay l'ho già scritto.
Posso dire che un approccio come "ciò che non è esplicitamente proibito deve essere legale" mi pare abbastanza labile? Che il "non vietato" sia permesso, sono d'accordo. Che sia anche legalmente riconosciuto, con tutte le conseguenze giuridiche che ne seguono, mi sembra una forzatura.

Più in generale, fino a che punto i giudici possono spingersi rispetto a scelte di "bene" e di "male" che spetterebbero forse alla politica?
E' vero che i giudici interpretano i diritti fondamentali e/o quelli costituzionali. Dove arriva l'interpretazione?

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