lunedì 29 aprile 2019

I reietti dell'altro pianeta

Ho appena finito di leggere I reietti dell'altro pianeta, di Ursula K. Le Guin.
Gran libro. Da far leggere nelle scuole. Fa pensare come un 1984.
Mi pare che ci siano dei notevoli germi di cristianesimo nell'utopia sociale tratteggiata dall'autrice: l'atteggiamento degli anarresiani - adesione volontaria a una "filosofia", l'Odonianesimo, a una idea di "bene", di "giusto" - assomiglia all'idea che ho io riguardo all'adesione alla Legge da parte dei cristiani.
La descrizione dell'importanza della fedeltà nell'idea del protagonista Shevek, che la considera fondante anche in una società che non pone leggi né vincoli ai rapporti, ha qualcosa che descrive l'urgenza "naturale" dell'uomo a qualcosa di più. Persino la sua creatività scientifica si "sblocca" nel momento in cui capisce di avere bisogno di un rapporto "per sempre".
Pur essendo l'autrice un'anarchica, non nasconde i problemi della sua utopia: la difficoltà a riconoscere il merito, il fatto che a tendenza a creare strutture - prima di pensiero, poi burocratiche - appare quasi "naturalmente" umana, la difficoltà nell'implementare un'anarchia totale nei rapporti familiari.
La società anarchica appare preferibile, per quasi tutti gli aspetti, a quella di Urras, ma l'autrice e Shevek ammettono che i picchi di bellezza, conoscenza, scienza, evoluzione raggiunti dalla società consumistico/capitalistica sono superiori a quelli raggiungibili su Anarres. Ciò però al prezzo di avere anche l'estremo opposto: picchi di povertà, oppressione, abbandono. E' l'eterno dilemma tra il livellamento dell'uguaglianza e la libertà di crescita personale, a prezzo di disuguaglianza.
Interessante anche il fatto che l'adesione volontaristica all'Odonianesimo si fonda su 1) una educazione capillare (potremmo chiamarlo indottrinamento: "non egoizzare!") e 2) sul fatto di essere tutti d'accordo, con pochi outlier. E' una cosa che ho sempre pensato del comunismo: funziona se tutti sono d'accordo, corretti e nessuno se ne approfitta. Ma la Le Guin mi fa riflettere anche su questo: i punti 1 e 2 sono due grosse limitazioni della libertà personale più assoluta.
Però sono anche l'unico modo per creare un sistema di valori condiviso Se si rinuncia alla moral suasion ho paura che non si possa scappare da un sistema contrattualistico di leggi.
Nel romanzo la questione rimane aperta: cosa succede dopo il ritorno di Shevek su Anarres, quando il Gruppo di Iniziativa sta scardinando l'adesione al "comune sentire"? Al costo di scatenare momenti di violenza?
Il romanzo è così interessante che solo leggendo una recensione mi sono accorto che praticamente non succede nulla per 250 pagine (poi, nelle ultime decine di pagine, c'è l'accelerazione con la manifestazione su Urras), se non dissertazioni di filosofia politica. Eppure è interessante lo stesso, pur con i suoi momenti di stanca.
La Le Guin è abile sceneggiatrice, meno come scrittrice, secondo me, e non regge benissimo le 300 pagine. Non per nulla il suo capolavoro è una novella breve, Quelli che si allontanano da Omelas.
Comunque un romanzo consigliatissimo.

giovedì 25 aprile 2019

25 aprile, come ogni anno

Come ogni anno, ecco il 25 aprile.
Qualche riflessione sparsa.

Ieri sera sono stato alla presentazione del libro Io non stavo a guardare, promosso da Fiamme Verdi e amministrazione comunale.
Elia Ravelli, nell'introduzione, ha stigmatizzato il comportamento di chi si dissocia dal 25 aprile, chiedendosi se negli USA o in Francia sarebbe possibile dissociarsi dalle feste nazionali del 4 luglio e 14 luglio. Ovviamente no. Però bisogna dire che le feste nazionali di USA e Francia celebrano avvenimenti "nazionali", non la fine di una guerra civile. Di più: entrambi quei Paesi hanno vissuto - come Spagna e Italia - una guerra civile. Ma Francia, Spagna (dove la festa nazionale è il giorno della scoperta dell'America, 12 ottobre) e USA non hanno giornate di festa che ricordano la fine della guerra civile, avvenimento che ha sempre dei vincitori e dei vinti. Solo noi italiani abbiamo una festa che celebra la vittoria di una parte (quella giusta, per fortuna) su un'altra all'interno della stessa nazione. Le feste delle altre nazioni sono un momento di orgoglio unitario, come poteva essere da noi il 4 novembre. L'unico caso simile al nostro potrebbe essere il Portogallo, che celebra nel 25 aprile la fine della dittatura fascista, e mi piacerebbe verificare se in quel caso l'adesione è così incondizionata. Resta inoltre la differenza che in Portogallo non c'è stata una guerra civile, ma una transizione pacifica.
Tornando al libro, gran bel lavoro. Uno sguardo a 360°, che ricorda i partigiani, le vittime innocenti, le vittime sul fronte sbagliato - quello repubblichino - e le ambiguità di un'esperienza. Onore comunque a chi decise di fare qualcosa, senza aspettare che gli americani arrivassero al Brennero da soli.

Mi viene in mente una cosa: la Resistenza nasce dopo l'8 settembre, che nasce a sua volta dopo il 25 luglio. Forse ogni tanto si dovrebbe spendere qualche parola anche per i firmatari dell'ordine del giorno Grandi. Fecero la cosa giusta, allora. In ritardo, e in modo largamente insufficiente a compensare le colpe precedenti, ma diamo loro atto di aver indovinato almeno quell'atto.

Ultima annotazione, che credo di aver già ripetuto anche altre volte: spiace sempre constatare l'assenza dei rappresentanti di centrodestra alle celebrazioni. Non di quelli di Riprendiamoci Ospitaletto, ché ce lo si può aspettare (anche se non giustificare, secondo me), ma di quelli di area Forza Italia.

martedì 23 aprile 2019

Sabato santo

Il sabato è il giorno in cui, sulla terra, non succede nulla.
Ma Gesù è già risorto: è nel limbo, a salvare Adamo e i patriarchi.
Li riporta alla visione di Dio, alla pienezza. Il Sabato Santo è il giorno a partire dal quale l'uomo ha la possibilità di ritornare alla comunione col Creatore, dalla quale fu distaccato dal peccato primigenio. Ora il peccato è vinto. La domenica ci sarà la manifestazione agli uomini (rectius: alle donne), ma la risurrezione è già storia.
Riflettevo sulle riflessioni (dev'essere quella che si chiama una metariflessione) dei giorni scorsi. Quello che ho scritto sul giovedì santo si potrebbe riassumere in "Prete, diventa ciò che sei" o "Sposo, diventa ciò che sei". Questi sono casi particolari di quella famosa e favolosa affermazione di san Giovanni Paolo II: "Uomo, diventa ciò che sei!".
E cosa è l'uomo, se non immagine e somiglianza di Dio? Con la resurrezione, in cui l'Uomo-Dio supera il limite umano per eccellenza - la morte - e torna ad essere vero uomo, vivo, che mangia e beve e si può toccare, e poi torna alla comunione col Padre nell'Ascensione, ci è data la possibilità di conformarci, ora in modo imperfetto, domani in modo perfetto, all'immagine di Dio - cioè alla nostra vera immagine.
Grazie!

sabato 20 aprile 2019

Venerdì santo

Venerdì santo.
Il giorno del sacrificio.
Qualche anno fa girava su Internet una vignetta: Gesù ha dato la vita, ma è risorto dopo tre giorni. In pratica ha dato il week-end per noi!
Al di là della battuta più o meno felice, a volte viene da pensare che la Passione di Gesù sia stata dolorosa, ma non per forza la cosa peggiore che possa capitare a un essere umano.
Ci sono persone che vivono in passione tutta la vita, perché malati, o perché con familiari malati da assistere giorno e notte, o perché portano dentro un dolore incancellabile per qualche perdita.
Però poi ripenso alla vita di Gesù. Non è mai stato compreso. Quante volte gli apostoli l'hanno lasciato solo? La gente che aveva intorno voleva solo miracoli, non gli interessava il significato. Voleva che trasformasse l'acqua in vino. Giuda voleva la rivoluzione. Gli apostoli volevano i primi posti. Ci sono parecchi passaggi del Vangelo in cui si legge questo: "Volete lasciarmi anche voi?", "Ancora non capite?", "Neanche un'ora sapete vegliare?", "Vade retro Satana!".
Forse la Passione di Gesù è iniziata ben prima del giovedì santo. Sono stati anni di sofferenze umane, di solitudine umana, di incomprensioni con gli uomini. Fin da Giuseppe e Maria: "Non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre mio?". Tutte cose che rendono la vita delle persone un calvario. Gesù aveva dalla sua solo il Padre. Solo lui lo capiva.
Letta così, forse anche il Triduo non è solo la rinuncia al week-end.

venerdì 19 aprile 2019

Di giovedì santo e di sacerdozio ministeriale

Giovedì Santo.
Il giorno dell'istituzione del sacerdozio ministeriale.
Chiunque lavori o presti servizio in ambito cattolico entra in contatto con molti preti. Ce ne sono dei più diversi tipi, come vale anche per il resto dell'umanità.
A volte si rimane scottati, nel conoscere certi preti - o meglio: nel vedere alcuni comportamenti da parte dei preti. Non ci si aspetta che "loro" possano comportarsi così.
A volte è un po' come staccare il cordone ombelicale. Da piccoli si vede il prete "dell'oratorio", che sta con te e ti fa giocare. Poi si cresce e si ha una visione più realistica, ci si scontra con le piccolezze umane.

Ammettiamolo: spesso i preti non danno il meglio di sé. Tante volte noi laici non li invidiamo, perché hanno compiti gravosi (di fronte alla morte improvvisa di qualcuno, ad esempio). Ma altre volte pensiamo che vivano proprio fuori dal mondo, che non abbiano idea di cosa voglia dire andare d'accordo con la gente - magari dovrebbero sposarsi!
Poi sono sempre meno, quindi stanno sempre più da soli. Capita che quando hanno a che fare prete con prete succedono cose antipatiche.

Eppure io credo che tante volte le loro debolezze sono poca fede nel sacramento dell'Ordine.
Con questo sacramento, il presbitero diviene alter Christus. Una volta lo si diceva di più, oggi non è più di moda. Ma resta vero. Non nel senso che diviene un essere perfetto, ma che 1) ogni prete può rendere presente Gesù tra di noi nel consacrare l'Eucaristia, indipendentemente che ne sia degno o no (e questa parte del sacramento se la ricordano, speriamo che ci credano anche); e 2) ogni prete ha a disposizione la possibilità di diventare sempre più degno di questo compito. Con un po' più di fede nel loro sacramento, secondo me, i preti sarebbero più umili, serviziovoli, autorevoli, capaci di essere umanamente degni del loro compito. Dei veri altri Christi, sul modello di Gesù.*

Si noti che la stessa cosa avviene col sacramento "gemello eterozigote": il matrimonio. Col matrimonio, la coppia diventa immagine dell'amore divino, con un sigillo che è tale e resta tale indipendentemente dal fatto che la coppia ne sia degna, e la coppia può trovare nel sacramento la forza per diventare degna di un'unione in cui si è in tre: marito, moglie e Dio (e quindi un po' anche in cinque, visto che Dio è Trinità). Se tante coppie ci credessero di più, nel loro sacramento, anche i matrimoni andrebbero meglio. Come per i preti...

* Si noti che questo è l'esatto contrario del clericalismo, condannato anche da papa Francesco. Quest'ultimo è l'abitudine dei laici a incensare i preti indipendentemente dalla loro aderenza a Gesù, e dei preti a farsi incensare dai laici. Il sacramento invece rende veri servitori, come ci insegna il Giovedì Santo.

martedì 9 aprile 2019

Paradiso e perdono

Ieri sera sono iniziati gli esercizi spirituali parrocchiali.
Durante la riflessione mi sono ritrovato a pensare all'immortalità, al paradiso, anche stimolato da questa lettura.
Mi è tornato in mente un fulgido esempio di perdono, una specie di riedizione della parabola del padre misericordioso a parti invertite (solo il fratello maggiore mantiene il suo ruolo...).
Anni fa mi ritrovai a dare una mano, in carcere, a una persona che doveva passare un esame universitario.
Erano parecchi anni che era "dentro". Aveva già preso il diploma lì, e ora serviva una mano in matematica
Tralascio gli aneddoti sul mondo carcerario che vissi (molto tangenzialmente) in quel periodo. L'essenziale è che quella persona era lì per questioni legate ad abusi sulle due figlie. Non ho mai saputo di preciso cosa fosse successo, ma vista la durata della pena non doveva essere cosa da nulla.
Un giorno questa persona mi disse: "La settimana prossima non venire. Sarò in permesso. Vedrò mia figlia!". L'eccitazione, la tensione era palpabile. Ovviamente questa persona era stata allontanata dalle figlie, finché queste erano minorenni. Compiuti i 18 anni, la figlia maggiore non aveva più voluto saperne nulla.
La figlia minore, invece, appena maggiorenne accettò di incontrare il genitore.
Qualche anno dopo, quella persona si laureò, e volle invitarmi a una festicciola, il pomeriggio della tesi, prima di ritornare in cella. C'era anche la figlia.
Era evidente che genitore e figlia non si conoscevano, non si frequentavano assiduamente: il rapporto era ancora limitato ai permessi carcerari.
Eppure lei era lì, a condividere un momento di festa, e si vedeva che cercava di "fare la figlia": "ti tengo il telefono, lascialo pure a me, vuoi qualcosa da bere?".
Due sorelle, una che perdona e accoglie, l'altra che fa la scelta più razionale e va per la sua strada.
Da quella volta sono sempre stato piuttosto sensibile alla sesta opera di misericordia corporale, pur non avendo più avuto occasione di praticarla.
Ecco, io mi immagino il Paradiso come un luogo in cui ci si perdona tutti, sempre. E il perdono come un'anticipazione di Paradiso in terra.
Quando saremo in Paradiso, dopo la risurrezione della carne, incontreremo di nuovo i nostri cari, ma non solo loro. Incontreremo anche coloro che ci hanno fatto dei torti, e coloro a cui li abbiamo fatti noi. Gli assassini (pentiti) incontreranno le loro vittime, e troveranno perdono.
Non per nulla, credo, il primo santo - e l'unico di cui siamo assolutamente certi, perché ce l'ha detto Gesù - è un ladrone condannato a morte.
Alla fine - ora aggiungo una bestialità teologica, perciò ci metto davanti un forse - il passaggio fondamentale della salvezza, della redenzione dono di Cristo, fu il "Padre perdona loro". Il sacrificio da solo, senza il perdono, sarebbe forse stato interpretato come nell'Antico Testamento: meritevole di punizione per gli uomini. Invece Cristo viene e porta il perdono. (Come nella Confessione: che grande sacramento!).

mercoledì 3 aprile 2019

Incontrare i musulmani

Sabato sono stato a Incontrarsi per conoscersi, il momento di fraternità vissuto presso il Centro Culturale Islamico di via Corsica, in commemorazione degli 800 anni dell'incontro tra san Francesco e il sultano Al-Kamil.
Sono rimasto favorevolmente impressionato dalla calorosa accoglienza e dalla numerosa affluenza.
L'incontro è stato più importante per il fatto di essere stato pensato e organizzato che per il contenuto stesso delle riflessioni.
Quanto detto sulla preghiera da frate Giancarlo e dal dottor Kabakebbj è cosa abbastanza nota. Frate Giancarlo ha indorato la pillola cercando i punti di somiglianza tra le due religioni, ed evitando per esempio di spiegare che la prescrizione della preghiera cinque volte al giorno (mattutino, lodi, ora media, vespro, compieta) vale solo per i religiosi. L'esposizione del relatore musulmano ha invece puntato molto sul fatto che la preghiera è obbligatoria (addirittura "il primo dovere del credente", ha detto). In generale mi è rimasta l'impressione che l'Islam sia una religione molto impostata sulle prescrizioni, mentre per i cristiani il comandamento fondamentale è quello dell'amore, una norma di vita e non di comportamento. Ciò mi ha fatto riflettere sul fatto che il cristianesimo è probabilmente la religione con meno vincoli e precetti. Interessante.
Il nostro vescovo ha parlato soprattutto del senso di spiritualità e di misticismo della preghiera, e dell'importanza dell'incontro. L'imam ha pronunciato invece parole molto incisive sulla società moderna, minacciata dall'ateismo: l'uomo che rifiuta il divino e pensa solo a sé stesso non trova la vera felicità. Queste parole mi sono ritornate in mente domenica, quando don Federico, nel commentare la parabola del padre misericordioso, ha descritto il figliol prodigo come uno che riteneva che la vera felicità si trovasse nei soldi e nelle persone (le prostitute). Così, paradossalmente, nell'individualismo, facciamo dipendere la nostra felicità dagli altri, da fattori esterni. E, come dice l'imam, non saremo mai felici.
Mi è piaciuta la nota finale di padre Giancarlo: san Francesco e il sultano si sono potuti riconoscere e parlare perché erano entrambi dei mistici.
La moschea di via Corsica mi ha lasciato una bella impressione. Leggo sulla targa esterna che le sovvenzioni arrivano (in parte) dal Qatar. Mi chiedo se parlare con queste brave persone sia sufficiente: a Brescia ci sono anche musulmani che si ritrovano altrove (viale Piave, via Volta, vicolo del Moro). Per esempio non mi pare d'aver visto molti pakistani. E' il solito problema della rappresentatività degli interlocutori musulmani.
E' stato per me stupefacente vedere la fatica di molti adulti, anche le guide della comunità, nel parlare italiano. Anche gli avvisi appesi alle pareti sono scritti in arabo (e non solo, mi pare) e in un italiano stentato. E' vero che la dottrina islamica prevede l'arabo come unica lingua, ma penso che questo sia un problema in vista dell'integrazione. Tra l'altro, alla moschea si ritrovano musulmani di vari Paesi: non sarebbe male che la lingua franca fosse l'italiano. Invece i giovani, probabilmente nati qui, parlano l'italiano benone, per fortuna.