martedì 26 dicembre 2017

La prima e la seconda venuta

Post natalizio, e anche un po' pasquale.
Riflettevo in questo Avvento sul fatto che la prima venuta di Gesù è stata difficile da individuare. Certo, uomini pieni di Spirito Santo come Zaccaria ed Elisabetta, i Magi, Simeone e Anna, Giovanni Battista, poi Nicodemo e i discepoli lo hanno riconosciuto come il Messia.
Però non era facile. Nessuno sapeva che Gesù fosse nato in realtà a Betlemme. Tutti lo conoscevano come galileo e nazareno, e il Messia sarebbe dovuto venire dalla casa di Davide, della tribù di Giuda, quindi dalla Giudea e da Betlemme.
Inoltre la Scrittura parlava di molti Messia: del Signore degli eserciti, del Re, del Messia politico. potente, trionfante, e solo alcune tradizioni parlavano del "servo sofferente di Jahvé". L'attesa era per qualcosa di... diverso. Oggi, con il senno di poi, leggiamo quelle profezie in modo diverso: Cristo Re regna dal trono della croce. Ma è l'interpretazione che diamo a ragion veduta.

Vedo alcuni parallelismi tra la situazione della Giudea dell'anno zero e la nostra, che nel terzo millennio aspettiamo il ritorno, la seconda venuta di Gesù.
A volte sorgono dubbi: ma sarà vero? Sono 2000 anni che aspettiamo... alcuni scritti del Nuovo Testamento ci dicono che il tempo è vicino, che doveva essere vicino già allora...
Ebbene, anche ai tempi di Gesù fa c'erano profeti che avevano annunciato la venuta del Messia centinaia di anni prima. Malachia annuncia la venuta del Battista con 5 secoli di anticipo. Immagino che anche allora molti dubitassero: "ma verrà poi questo Messia di cui ci hanno promesso secoli fa?" E alla fine è arrivato, in un giorno come tutti gli altri. Senza preavviso, sottovoce, in una capanna, in un borgo sperduto. Senza spalancare i cieli e senza squilli di tromba.

E se anche la seconda venuta fosse così? Noi abbiamo in mente l'Apocalisse, ma in effetti la venuta in gloria era attesa anche dagli ebrei, solo dopo abbiamo compreso come andavano lette quelle profezie. Magari anche stavolta ogni giorno è buono.

E se per ciascuno di noi il Messia tornasse in modo diverso? E' lui stesso che ce lo dice (Mt 25,40):
ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.
 Ogni volta che incrociamo un piccolo, un povero, un debole, quello è Gesù che ritorna.

Alla fine l'unico modo sarà cercare di essere sempre pronti e usare gli occhi del cuore, più che quelli dello studio.

martedì 19 dicembre 2017

La torta dei diritti

Sabato 16 ho partecipato al ritiro natalizio per le persone impegnate nel politico e nel sociale.
Interessante l'intervento di don Bruno Bignami, che ha fornito molti spunti.
Su alcune cose ha sfondato porte aperte, almeno con me. Mi è piaciuto come ha detto che l'etichetta di "argomenti eticamente sensibili" non ha senso:
Perché quando parliamo di lavoro, non è un argomento eticamente sensibile? Quando parliamo di casa, non è un argomento eticamente sensibile?
Ma mi è piaciuto in particolare quando ha parlato di diritti e doveri. Don Bignami ha detto che non possiamo immaginare i diritti come un panettone di cui ciascuno prende la sua fetta che gli spetta, ma invece bisogna pensare che ciascuno si faccia un po' pasticciere e si metta a impastare per fare un panettone più grande.

Ci riflettevo nelle settimane scorse. Una delle accuse che MDP/Articolo 1/LeU (uff uff) porta a Renzi è di aver smantellato i diritti del lavoratori, come voleva la destra.
Renzi replica che nessun governo di "vera sinistra" ha mai fatto di più sui diritti civili.

Qualcuno ha osservato che i diritti civili vengono utilizzati come "specchietto per le allodole" per coprire l'erosione di quelli sociali.

Questa è la visione dei diritti come fette di torta: se ne allargo una, un'altra si restringe.
Don Bruno Bignami ci offre un'alternativa a questo approccio. E aggiungo che il lievito della torta, che la ingrandisce in modo che si possano allargare anche tutte le fette, può essere solamente costituito dai doveri. Senza i doveri, e il loro responsabile rispetto e coltivazione, la torta dei diritti non cresce. Idea non mia, ma mutuata da Novak, che ho appena terminato di leggere.

mercoledì 13 dicembre 2017

Tempi di transizione

In questi giorni pensavo ai tempi di transizione, e ho nominati la caduta dell'Impero Romano.
Mi è capitato a volte di pensare che è possibile che siamo vicini a una situazione che ha degli aspetti in comune con quell'epoca. Veniamo da due secoli abbondanti di cultura anglosassone. Chi lo sa come sarà il prossimo secolo? Predominio cinese? Meltin' pot? Cultura occidentale che invade anche la Cina, modello Graecia capta ferum victorem cepit? Cultura occidentale in declino anche demografico (sia in Europa, che per la componente WASP negli USA) che lascia il posto a una cultura diversa? Cultura musulmana per via della demografia e delle migrazioni di massa?

Non so come, ma a me l'epoca del tardo antico - alto medioevo (diciamo tra il 500 e il 1000, mica bruscolini) affascina tantissimo. Forse sarà per la scarsità di informazioni: pensiamoci, a scuola di quella parte di storia cosa si sa? Tra la caduta dell'Impero e i Comuni è già tanto se si nominano Giustiniano e Carlo Magno. Per qualcuno addirittura quei secoli non esistono...

Inoltre c'è il fascino del "day after": è innegabile che in quel periodo la società e la cultura hanno vissuto in molti campi un certo regresso. Per me è affascinante vedere che la storia non è lineare, può recedere, ma alla fine l'uomo ne viene fuori in maniere sempre creative. L'apogeo del Medioevo (il tredicesimo e quattordicesimo secolo) è un grande periodo, base del Rinascimento, ma completamente diverso dall'epoca antica: la strada verso quell'epoca è stata tracciata nei secoli altomedievali.

Per noi bresciani, inoltre, quello è il periodo dei Longobardi. Invasori spietati, ma anche una gens che avrebbe potuto unificare l'Italia con mille anni di anticipo, se non fosse stato per il Papa. Io e mia moglie siamo appassionati del tema, e partendo da Santa Giulia abbiamo cominciato a percorrere i luoghi longobardi patrimonio UNESCO.
Sono posti bellissimi. Quell'arte geometrica, con figure sbozzate, che anticipano gli stili di Wiligelmo, è affascinante. Si vede il fascino verso l'arte classica, con tentativi di imitazione che sembrano quelli dei bambini ma anche l'influsso dell'iconografia nordica. Un'epoca in cui un medioevo quasi fantasy irruppe in un mondo classico.

Comunque non siamo gli unici appassionati: per la mostra Longobardi ci sono state code fin dal primo giorno, figurarsi quando siamo andati noi, domenica 3, l'ultimo giorno...
Bella mostra, comunque. Fa un certo effetto vedere che tanti reperti ormai li conosciamo, e abbiamo visitato i luoghi da cui provengono (Castel Trosino, Cividale del Friuli, Museo dell'Alto Medioevo a Roma...). Stiamo diventando esperti :-)

giovedì 7 dicembre 2017

Le radici dell'irrilevanza dei cattolici (2)

(continua da qui)

A questo punto è necessario ripartire.
Fa strano dover ripartire da un progetto di un quarto di secolo fa, ma secondo me la strada non può che essere quella. Il collateralismo politico non conduce da nessuna parte, specialmente con una politica povera come quella attuale - cosa su cui la Chiesa non è esente da una certa quota (sia pure minoritaria) di colpa, come ho accennato. E non è un problema di scegliere una parte o un'altra: non va bene in ogni caso. Il lavoro che la Chiesa deve fare è culturale, bisogna scendere nell'agorà pubblica portando i valori cristiani e spiegando che sono valori umani, accettabili anche in maniera laica. Valori ragionevoli per tutti, mi verrebbe da dire.
Per riuscire a fare ciò dobbiamo prima di tutto lavorare su noi stessi, all'interno della Chiesa. Creare cristiani consapevoli, preparati, formati, pronti a «rendere ragione della speranza» che è in noi (1Pt 3,15). Senza nemmeno preoccuparci dei numeri, o del successo. Quello seguirà, se sapremo lavorare su noi stessi. Certo è una prospettiva di lungo periodo, ma questo - come diceva Mauro Magatti alla Settimana Sociale di Cagliari - è il tempo della semina.

martedì 5 dicembre 2017

Le radici dell'irrilevanza dei cattolici (1)

Ritorno su un concetto che ho accennato nell'ultimo post, a commento della Settimana Sociale di Cagliari: l'irrilevanza dei cattolici nel dibattito pubblico.
Mi sono molto interrogato sull'origine di questo fatto. A Cagliari, come ho scritto, questa sensazione era strisciante ma ben presente, come un ospite sgradito. Vedo che anche un altro reduce da Cagliari, Luigino Bruni, ha notato questo fatto. Però mi pare che il sui intervento sia stranamente carente nell'analizzare i motivi di questa irrilevanza.
Io ho le mie idee al riguardo, e - come forse si è capito - ritengo che questo fatto derivi dalla prolungata incapacità di affrontare le mutazioni culturali intervenute nel dibattito pubblico degli ultimi (almeno) 30 anni.

martedì 7 novembre 2017

Diario della Settimana Sociale (4)



Prosegue da qui e si conclude.

Per concludere, alcune osservazioni personali. Secondo me questa Settimana Sociale ha posto fortemente il tema dell’irrilevanza dei cattolici nel dibattito pubblico. C’erano pochi giornalisti e pochi politici (oltre a chi doveva intervenire, si sono intravisti Lupi e Zanda – che ha semplicemente accompagnato Gentiloni – mentre Mariastella Gelmini ha partecipato ai lavori per due giorni). Chi è più esperto di me mi dice che nelle edizioni precedenti la partecipazione era molto più nutrita.
Può nascere la tentazione di superare questo problema bypassando il livello pubblico e elaborando proposte da passare direttamente dal comitato scientifico organizzatore al governante di turno, in un dialogo diretto ma un po’ elitario: mi sembra un approccio (tra l’altro non nuovo, ma già tentato negli anni 2000) forse più “facile” ma non di lungo respiro.
Bisogna invece pensare a un progetto culturale che possa parlare non confessionalmente a tutta la società italiana. Per questo potrebbero essere utili alcuni accorgimenti comunicativi (per esempio perché non aprire al pubblico alcuni momenti delle Settimane?), ma anzitutto bisogna che si formino i cristiani per essere lievito nella società. Uno dei leitmotiv delle giornate di lavoro è stato l’affermazione di papa Francesco nella Evangelii gaudium secondo cui l’importante è avviare processi, non occupare spazi. Mi sembra che il dialogo diretto con i politici ricada ancora nella prospettiva dell’occupazione di spazi, del piantare bandierine. Bisogna invece avviare un processo di cambio di mentalità, sia nel lavoro che nelle comunità cristiane. Quanti cristiani sanno cosa sono le Settimane Sociali? Quanti conoscono le conclusioni a cui siamo arrivati? Quante parrocchie hanno detto una preghiera al riguardo? Quanti prendono in considerazione l’idea che – proprio perché si è cristiani, non nonostante si sia cristiani – è il caso di impegnarsi nel miglioramento della nostra cosa pubblica, intesa nel senso più ampio possibile?
Riporto un aneddoto che ho condiviso con il mio tavolo di lavoro. Un mese fa ero di ritorno da Roma, in auto. In un autogrill, sulla porta di un bagno, c'era questo slogan pubblicitario: "Usiamo prodotti che rispettano la natura". Evidentemente era uno slogan della ditta a cui è affidata la pulizia dei servizi igienici. E’ passato un addetto. Avrà avuto 50-55 anni, sembrava piuttosto male in arnese. Di solito queste ditte sono cooperative. Mi sono chiesto: quando avremo cartelli con scritto: “Paghiamo salari che rispettano le persone”? Perché sul pubblico dovrebbe far più presa il richiamo bucolico alla natura che quello alla persona?
E’ questo il cambio di mentalità di cui abbiamo bisogno. Rimettere al centro il lavoro permetterebbe di ripensare anche l’orientamento scolastico, convincendo anche i genitori che non è un’offesa che il figlio faccia un istituto professionale o tecnico. Per questo cambio di mentalità passano il “voto con il portafoglio”, su cui insiste sempre il prof. Leonardo Becchetti, e l’introduzione di buone pratiche nell’economia come nelle nostre parrocchie. Per l’ecologia cominciammo a “avviare processi” educativi venticinque anni fa, e siamo arrivati a buon punto: oggi vogliamo detersivi che non inquinano. Bisogna mettere in campo un’educazione simile anche per l’ecologia umana, partendo da noi cristiani, testimoni credibili di buone pratiche dalle nostre parrocchie al Paese intero.
Vedremo come andrà la ricezione nelle diocesi.

sabato 4 novembre 2017

Diario della Settimana Sociale (3)

Prosegue da qui.



Il terzo giorno è stato il giorno dei politici. Era stato infatti organizzato un dialogo tra due ministri del lavoro, uno attuale (Giuliano Poletti) e uno passato (Maurizio Sacconi). A questo si è aggiunto l’intervento del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, originariamente previsto per la domenica ma anticipato al sabato per impegni istituzionali. Però prima di tutto questo, in mattinata, si è fatto notare l’intervento di Mauro Magatti, che tra le altre cose ha osservato che oggi siamo vincolati a uno schema sclerotizzato: «chi ha il patrimonio non investe perché vuole proteggersi (gli anziani) e chi vuole investire non può farlo perché non dispone delle risorse necessarie e anzi è gravato dal debito accumulato (i giovani)». Bisogna quindi «creare nuovi strumenti (finanziari, fiscali, contrattuali, etc.) per mettere in gioco il patrimonio (cioè il dono-del-padre) mobiliare e immobiliare accumulato in favore della ripartenza delle giovani generazioni. Una questione che deve riguardare le famiglie, ma anche le imprese, le associazioni, lo Stato, la Chiesa». Sulla parola “Chiesa” dall’assemblea si è alzato un sentito applauso.
Al presidente Gentiloni sono state fatte quattro proposte, molto concrete, alcune persino dettagliate: 1) investire nel sistema della formazione professionalizzante (tirocinio, apprendistato, CFP)[1]; 2) facilitare l’accesso al credito delle imprese piccole e medie non quotate in borsa, per esempio utilizzando i fondi raccolti con i PIR (Piani individuali di risparmio); 3) cambiare le regole dell’assegnazione degli appalti, tenendo conto non del massimo ribasso ma di un punteggio che calcoli anche parametri di responsabilità sociale, fiscale e ambientale; 4) ripensare l’IVA, rimodulandola a somma zero per permettere la riduzione per imprese che rispettino determinati parametri sociali, fiscali e ambientali. Gentiloni ha avuto buon gioco sui punti 1 e 3, su cui ha detto che il Governo già sta lavorando, e si è detto anche possibilista sul punto 2, che al governo non costa nulla. Per il punto 4 le cose sono più difficili.
Potrebbe sembrare un successo aver portato a casa tre punti su quattro, ma come al solito il diavolo si nasconde nei dettagli: se quei punti fossero messi in atto completamente e profondamente sarebbe un vero cambio di paradigma, ma se invece l’attuazione fosse un maquillage dell’esistente (per esempio presentando come soluzione al punto 1 l’alternanza scuola-lavoro, o facendo sì che i parametri non economici siano molto minoritari rispetto al massimo ribasso per il punto 3) allora si tratterebbe di un nulla di fatto. Certo è che al governo non sono state fatte richieste molto costose, e si sono lasciate fuori dal discorso le questioni più spinose (la politica industriale, le politiche attive per il lavoro, la questione del lavoro domenicale, il taglio del cuneo fiscale, anche il costoso piano di intervento sul territorio di cui aveva parlato mons. Bassetti). Questo è un gesto di responsabilità e di realismo da parte del comitato organizzatore: vedremo se sarà raccolto.
L’approccio dei lavori, poco centrato sull’intervento statale e molto orientato all’imprenditorialità, l’intraprendenza e la creatività, è stato confermato anche da Poletti e Sacconi. Se dal secondo – proveniente dall’area di centrodestra – questo poteva essere prevedibile, ha sorpreso l’entusiasmo con cui il ministro Poletti ha parlato delle imprese: «Ancora c’è qualcuno che pensa che le imprese sfruttino i lavoratori, invece senza impresa il lavoro non esiste!».
Infine si è arrivati alla domenica. Dopo la Santa Messa, l’assemblea ha accolto il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, a cui ha portato tre proposte, a dire il vero meno concrete di quelle fatte a Gentiloni: 1) eliminare i paradisi fiscali interni all’Unione Europea, 2) accrescere gli investimenti, sia pubblici che privati, per esempio portando ad attuazione il piano Juncker, 3) dare mandato alla BCE di perseguire non soltanto la stabilità (inflazione prossima al 2%) ma anche l’occupazione. Si tratta di traguardi di prospettiva, non “immediatamente cantierabili”, come invece amava dire (con un’espressione orribile) il vicepresidente del comitato scientifico Sergio Gatti delle proposte fatte all’Italia. D’altra parte il parlamento europeo è meno incisivo di un governo nazionale, e il suo presidente è meno incisivo del presidente del Consiglio.
Tajani ha aderito a queste proposte in termini di principio, e poi ha fatto un discorso più “politico”, cercando secondo me di “marcare il territorio” anche in vista delle elezioni e insistendo su temi particolarmente identitari, come la difesa dell’identità cristiana di fronte ai musulmani. La stessa cosa aveva fatto il giorno prima Sacconi, insistendo soprattutto sui temi etici (fine vita, genitorialità). Gli esponenti di centrosinistra Gentiloni e Poletti, invece, sono stati più istituzionali. All’interno di questi discorsi più “politici” è stato interessante il concetto che nella società liquida l’uomo per resistere deve ancorarsi alla terraferma di solide basi valoriali: l’uomo deve sapere chi è.
E’ stato quindi il momento delle conclusioni, affidate al presidente del comitato scientifico mons. Santoro – vero mattatore, secondo me – e al presidente della CEI cardinale Bassetti. Mons. Santoro ha insistito sul cambio culturale, il cambio di paradigma che deve mettere l’uomo al centro del lavoro. Per fare ciò è necessario il concorso di tutti, e non si è tirato indietro dall’accettare il compito di conversione anche per la Chiesa: «Qui è chiamato in causa lo spessore della esperienza vitale delle nostre comunità parrocchiali, degli istituti religiosi, di associazioni, movimenti, servizi e altre forma di aggregazione laicale. Non possiamo chiedere la novità alla politica se non la viviamo prima noi». Uno scatenato Santoro ha poi detto che va bene quel che ha detto mons. Bassetti il giovedì, che la Chiesa non è un’agenzia di collocamento sociale, ma «è anche vero che la vita delle nostre comunità non può limitarsi alla catechesi, liturgia, processioni e benedizioni», e ha prospettato una serie di interventi molto incisivi di collaborazione tra l’ambito cristiano e diocesano e le realtà sociali e politiche del territorio. Sembra che la CEI sia diventata molto più democratica di qualche lustro fa... Mons. Santoro ha anche citato un tema che era rimasto quasi inosservato (in maniera per me sorprendente, perché si tratta di una bandiera dei cattolici) nei giorni precedenti: il riposo festivo.
Il cardinal Bassetti ha concluso i lavori con un saluto in verità un po’ più esteso di quello ufficiale riportato sul sito della Settimana Sociale. Al di là dei ringraziamenti, comunque, si è adeguato al clima sinodale dichiarandosi felice dell’andamento dei lavori (forse ha applicato a sé stesso ciò che ha detto suor Alessandra Smerilli a proposito del non pretendere di sapere all’inizio la conclusione del lavoro...) e ne ha approfittato per rimarcare anche lui il tema dell’importanza della domenica.

(continua)


[1] In tema di formazione, mi ha stupito l’assenza pressoché totale di discussione sull’università. Spesso citiamo il problema che l’Italia abbia troppo pochi laureati: non c’è stata traccia di questo tema, anzi ci si è concentrati su chi all’università non ci va. Solo nel docufilm si è parlato di università, per dire che non è vero che quella italiana non prepara bene, nonostante le classifiche internazionali.

venerdì 3 novembre 2017

Diario della Settimana Sociale (2)

Prosegue da qui.


Il secondo giorno è stato il momento delle due novità più significative di questa Settimana. La mattina abbiamo svolto i lavori di gruppo. Pare che sia una novità far partecipare tutti i delegati. Mi dice chi ha partecipato alle precedenti Settimane che prima non si parlava, si ascoltavano solo gli interventi dal palco. Magari numerosi (a Torino nel 2013 si susseguivano interventi ogni tre minuti) ma sempre solo dal palco. Quest’anno si è voluto dare un’impronta più sinodale. Anche il comitato scientifico di preparazione ha lavorato in questo modo, e sembra che sia andata molto bene. Suor Alessandra Smerilli – membro del comitato – ha spiegato che il metodo sinodale si può applicare a tutti i livelli, fino alle nostre Parrocchie, basta non aver paura di lavorare senza avere predeterminato quali saranno le conclusioni.
Nel nostro caso si sono organizzati 100 tavoli da una decina di persone ciascuno, con appartenenze ed età variegate. E’ stato bello vedere ai tavoli, in un confronto alla pari, anche i vescovi. Al mio tavolo ha partecipato mons. Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo. E’ stato proprio lui, mentre la discussione stava su temi generici, a sottolineare con esempi concreti su decisioni che ha dovuto prendere in diocesi che le scelte sul lavoro degno interpellano anche la Chiesa. Ha sottolineato che la Chiesa deve purificare il suo agire, da questo punto di vista: basta lavori in nero, al massimo ribasso purchessia, magari lavori non pagati. Il vescovo ha usato un’espressione che non dimenticherò tanto presto: «purtroppo la Chiesa ha una vocazione all’illegalità. Non so perché, se perché abbiamo sempre pensato che lo spirituale è superiore al temporale, o per che altro motivo». La guida del tavolo ha chiesto di ripetere, credeva di non aver capito... invece mons. Mogavero ha ribadito scandendo bene «vocazione all’illegalità». Per essere testimoni credibili dobbiamo essere trasparenti. E’ una questione di correttezza, la stessa che chiediamo ai politici nel gestire i soldi pubblici, perché anche i soldi della Chiesa sono “pubblici”: sono dei fedeli.
Pensavo che la cosa sarebbe rimasta confinata al tavolo di lavoro, invece nell’intervento di chiusura mons. Santoro (presidente del comitato scientifico) ha affermato che la Chiesa deve farsi carico di mettere in pratica lei per prima le cose che chiede al mondo del lavoro. Non so se in questo passaggio entra quanto emerso nel nostro tavolo, così come non so quanto i contributi dei tavoli siano entrati nelle conclusioni dei lavori (anche perché è difficile rielaborare in poche ore cento tavoli e mille teste, individuare qualche spunto comune e trovare anche il modo di inserirlo in bozze di conclusioni certamente già predisposte). Se non altro è stata una bella esperienza di condivisione per noi delegati.
Il pomeriggio, mentre i responsabili cercavano di far quadrare il cerchio dei lavori di gruppo, siamo stati accompagnati a visitare alcune delle “buone pratiche” del lavoro che una apposita commissione aveva individuato nei dintorni di Cagliari. La ricerca di buone pratiche è stata la seconda novità messa in campo da questa Settimana Sociale: nello scorso anno dei “cercatori di lavOro” si sono mossi in tutta Italia per cercare esempi di pratiche di lavoro che avesse le caratteristiche indicate dall’Evangelii gaudium, cioè libero, creativo, partecipativo e solidale; in una parola: degno, e che fossero pratiche economicamente sostenibili (niente assistenzialismo) e riproducibili. Ne sono emerse 402. Dalla (supersonica) descrizione che ne è stata fatta in assemblea da Leonardo Becchetti mi pare d’aver capito che si tratta soprattutto di piccole imprese, in vari campi, dalla cultura all’enogastronomia all’innovazione. Su otto di queste pratiche – in questo caso otto aziende medio-grandi – si è realizzato un documentario molto interessante, disponibile in rete. Mi ha colpito in particolare l’affermazione di una dirigente di una grande azienda farmaceutica, che parlava dei suoi bravi dipendenti: «devi meritarteli, dei dipendenti così». Se vuoi dei dipendenti appassionati, positivi, formati, che lavorano bene, devi metterli in condizione di farlo.

(continua)
 

giovedì 2 novembre 2017

Diario della Settimana Sociale (1)


Un paio di mesi fa fui contattato da don Mario Benedini, allora direttore diocesano dell’Ufficio Pastorale Sociale, con cui collaboro ormai da molti anni. Don Mario mi chiese di partecipare come delegato alla Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, a Cagliari.
Cos’è una Settimana Sociale? E’ un appuntamento periodico, non a scadenza fissa, in cui – come dice il nome – i cattolici italiani si incontrano per discutere di temi sociali e politici che riguardano il nostro Paese. Le Settimane Sociali nacquero 110 anni fa, nel 1907, per iniziativa del beato Giuseppe Toniolo. Da allora se ne sono svolte 48[1]. Il tema del Settimana (in realtà una quattro giorni, da giovedì 26 a domenica 29) è stato il lavoro, secondo il titolo ripreso dalla Evangelii gaudium: “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”.[2] La partecipazione era aperta ai delegati di ogni diocesi: eravamo circa mille, tra cui 180 sacerdoti e 80 vescovi. Il comitato organizzatore aveva chiesto che almeno uno dei delegati fosse un giovane. Dalla diocesi di Brescia siamo scesi in cinque, guidati dal direttore dell’Ufficio Pastorale Sociale Enzo Torri.
I lavori sono stati molto intensi. Le giornate iniziavano alle 6:30 con la colazione in albergo e terminavano con la cena alle 21-21:30 di sera, e nel mezzo c’erano pochissime pause. Marco Arnolfo, arcivescovo di Vercelli, ha commentato in una omelia: “Siamo qui per un convegno sul lavoro, e ce ne siamo accorti! Se fosse stato un convegno sul tempo libero magari sarebbe stato meglio...”.
Le due precedenti Settimane sul lavoro si tennero nel 1946 – poco prima dell’approvazione della Costituzione, che si basa proprio sul lavoro – e nel 1970 a Brescia, nell’anno dello Statuto dei lavoratori. Durante i lavori si è espresso l’auspicio che anche questa Settimana possa accompagnare un momento importante per il lavoro, magari sul tema della tanto paventata e temuta quarta rivoluzione industriale[3].
A questo riguardo l’atteggiamento della Settimana è stato particolarmente ottimista: si è detto che il futuro può portare benefici al lavoro e ai lavoratori, se saremo capaci di governare il cambiamento e non credere che le cose debbano ineluttabilmente seguire un certo corso, magari determinato da quel “paradigma tecnocratico” di cui parla Francesco nella Laudato sì. L’economista Stefano Micelli ha sottolineato che il settore della meccatronica personalizzata è cresciuto molto in Italia negli ultimi dieci anni e ha grande potenzialità di espansione.[4] Anche Marco Bentivogli (Fim-Cisl) ha parlato con grande ottimismo del futuro dei macchinari intelligenti, in grado di alleviare il lavoro degli operai (una posizione anche sorprendente per un sindacalista del settore metalmeccanico).
La prima giornata ha ospitato il messaggio del Papa, che ha sottolineato il fatto che la precarietà assoluta, il lavoro nero, il lavoro non degno sono immorali e arrivano ad uccidere. Si è avuta una toccante testimonianza di questo fatto da parte di Stefano Arcuri, che ha raccontato la storia di sua moglie Paola, morta nei campi, vittima di un lavoro massacrante controllato dai “caporali”. Il presidente della Conferenza Episcopale Italiana, cardinale Bassetti, ha ricordato che la Chiesa non è un operatore sociale e ha indicato nel suo intervento alcune priorità da consegnare alla politica, tra cui la famiglia (messa in difficoltà dal precariato) e l’attenzione al territorio e al dissesto idrogeologico[5]. Il vescovo è entrato molto nel dettaglio, annunciando alcune iniziative della CEI e delle proposte da fare al governo. Addirittura il suo intervento è sembrato troppo dettagliato, e ha dato l’impressione di essere già arrivati alle conclusioni, con un momento di smarrimento tra i delegati (“Ma come, hanno già deciso tutto prima di cominciare? E noi cosa siamo venuti a fare?”). Invece nei giorni successivi – in maniera sorprendente – i lavori si sono orientati verso direzioni molto diverse: la famiglia non è più stata al centro dell’attenzione, e ancor meno si è parlato di protezione del territorio.

(continua)


[1] Quella di quest’anno è la seconda che si tiene a Cagliari, la prima fu la 30ma nel 1957. Quindi nei primi 50 anni le giornate furono 30, nei restanti 60 solo 18, a scadenze molto variabili.
[2] In realtà queste parole vengono dall’esperienza di papa Francesco a Buenos Aires, dove egli le pronunciò nel 2003.E’ in qualche modo simbolico che esse vengano riprese oggi nel santuario della Madonna di Bonaria, protettrice di Cagliari e che dà il nome alla capitale argentina.
[3] Dopo la prima rivoluzione industriale (macchine a vapore), la seconda (elettricità), la terza (elettronica, computer, informatica), la quarta dovrebbe essere quella dell’Internet of things, le connessioni in rete, il lavoro da remoto, l’intelligenza artificiale.
[4] Lo stesso economista ha sottolineato che dovrebbe essere questo il volano futuro della nostra economia, e non il turismo, che è un settore a basso valore aggiunto.
[5] Mons. Bassetti è fiorentino – ha citato l’alluvione dell’Arno del 1966 – e vescovo in Umbria, terra ad alta sismicità.