mercoledì 27 novembre 2013

PGT: a che punto siamo?

Come sappiamo, il nostro Comune è ancora senza un Piano di gestione del territorio. Ho provato a fare il punto della situazione.

A febbraio l'amministrazione ha dato notizia dell'avvio del procedimento per  un nuovo PGT: era il 21/2. Contestualmente si è data comunicazione del termine per la raccolta  dei suggerimenti da parte dei cittadini, il 29 marzo 2013.
Il 30 giugno il Consiglio comunale ha approvato le linee di indirizzo per il PGT.
In estate è stato pubblicato il documento di scoping (ovvero l'analisi del contesto ambientale e socio-economico), che è stato a suo tempo pubblicato sul sito comunale. Ora non è più al suo posto, ma è recuperabile sul sito della Regione. Si è anche tenuto un incontro pubblico (il 17 luglio) su questo argomento.
Da allora, però, ho perso di vista il progredire dei lavori. L'area dedicata sul sito del Comune è muta dall'estate, anzi alcuni link sono vuoti. Se l'iter è progredito, non v'è notizia in rete.

A questo riguardo, un appello: se davvero vogliamo favorire la partecipazione, come suggeriscono sia la legge che il programma elettorale della maggioranza, non trascuriamo il mezzo web, che al giorno d'oggi è imprescindibile. Rimettiamo in sesto l'area del sito comunale sul PGT, pubblichiamo una cronotabella (come si fa per ogni progetto serio di ogni azienda seria), facciamo sparire i link alle pagine rimosse (mi pare il minimo sindacale).

Tornando ai lavori, anche il Consiglio comunale convocato per domani non ha all'ordine del giorno nulla al riguardo. Però la scadenza temporale per l'adozione del PGT (che non è l'approvazione finale) è ormai molto prossima: il 31 dicembre. Se non adottiamo il PGT entro un mese, quindi, scatteranno delle penali che non comprendo bene, ma che hanno l'aria di non essere nulla di buono per un Comune alle prese con problemi di bilancio e con un nuovo mutuo per coprire la faccenda Italgas:
i Comuni inadempienti saranno esclusi dall’accesso al patto di stabilità territoriale per l’anno 2014 e il mancato rispetto di tale scadenza costituirà un indicatore negativo nell’indice di virtuosità.

giovedì 21 novembre 2013

Scissioni e frammentazioni

Non spendo troppe parole sula "scissione" del Pdl. Mi pare evidente che Berlusconi, viste svanire le speranze di un salvacondotto per le sue condanne, non avesse più nessun interesse a stare al governo (cosa che gli riesce molto peggio che stare all'opposizione). Al tempo stesso anche lui sa che votare ora vuol dire fare un piacere a Renzi. Ecco quindi la separazione, con Silvio a contendere i voti grillini e Alfano a prendere tempo prima delle elezioni.

Mi interessa di più la scissione in Scelta Civica. La rottura con l'Udc e i "popolari" di Mauro fa chiarezza dell'equivoco di fondo con cui nacque l'avventura politica di Mario Monti: non posso che esserne lieto.

Ora il dubbio è se sia troppo tardi per salvare un'esperienza autenticamente riformista. Temo di sì.

La mia speranza è che la rinnovata Scelta Civica possa incontrare i movimenti liberali, come Fare  per Fermare il declino (già prima delle elezioni Giannino ebbe delle trattative con Monti, saltate essenzialmente per l'alleanza con Casini) e Ali (la nuova "creatura" di Giannino, a cui si è avvicinato anche Montezemolo).

Certo questi movimenti non hanno dato un grande esempio finora, con la figuraccia rimediata da Giannino alle elezioni, le diatribe in Fare del padre-padrone Boldrin, la nascita di Ali in concorrenza a Fare (sembrano i mille partitini comunisti che lottano per l'1%...), la fuoriuscita di Italia Futura da Scelta Civica dopo il risultato elettorale deludente (mossa alquanto opportunistica)...

Speriamo che siano solo difficoltà dettate dall'entusiasmo e dall'ingenuità di un gruppo di neofiti della politica. Per le prossime elezioni europee servirebbe decisamente un'offerta in grado di occupare lo spazio liberale completamente scoperto (per piccolo che sia): l'Italia non ha praticamente un partito che faccia riferimento all'ALDE, il partito europeo dei liberali. Anzi, in verità non l'ha mai avuto: in passato ci siamo dovuti affidare a Di Pietro (!) e ai prefissi telefonici dei Radicali. Nulla a che vedere con i liberali inglesi o tedeschi, che formano l'ossatura del partito europeo.

domenica 17 novembre 2013

La guerra, il IV novembre, l'Italia, l'Europa

Qualche giorno fa (ok, due settimane fa: sono indietro con il "lavoro") abbiamo commemorato il IV novembre, festa delle Forze Armate e anniversario della vittoria.
Abbiamo commemorato una guerra. Man mano che passano gli anni, le guerre ci sembrano sempre più lontane, e la retorica militare è passata di moda. Ormai nel mondo evoluto hanno messo radici la pace e il pacifismo, a volte addiritura per moda, a volte un pacifismo acritico, "senza se e senza ma". E' sempre più difficile rapportarsi con la guerra e gli argomenti militari: le "missioni di pace",  sono di difficile giustificazione, il termine stesso appare talvolta ammantato di ipocrisia; ma quando ci sono dei caduti, questi diventano degli eroi, "i nostri ragazzi", e si sfodera la retorica delle bare nella bandiera, degli omaggi militari eccetera.
Facciamo fatica ad avere un rapporto equilibrato con la guerra. E ben venga che sia così: questo è segno di un accresciuto spirito critico e di una sana abitudine alla pace. Forse non sarebbe neppure possibile avere un rapporto equilibrato con una situazione così estrema, che per di più quasi nessuno di noi ha toccato con mano (per fortuna).

Le guerre possono servire a qualcosa? Possono esserci guerre utili, o necessarie? A questo proposito ho trovato interessante, mesi fa, questa intervista al filosofo americano Michael Novak. Il passaggio cruciale è questo:
In America la schiavitù fu eliminata grazie alla Guerra Civile. Fu un dramma di proporzioni enormi, ma è difficile immaginare una via alternativa per raggiungere lo stesso risultato. Poi abbiamo sconfitto il nazismo con la forza, e non credo che ci fossero altre strade. Infine abbiamo piegato l’Unione Sovietica grazie alla Guerra Fredda, che in molti casi è stata calda, e comunque ha rappresentato un successo ottenuto soprattutto dal fatto che abbiamo prevalso nella sfida tra i due apparati militari. Per noi americani, in sostanza, non è vero che la guerra non ha mai risolto nulla.

La visione è un po' estrema: tutti sappiamo che dietro alle guerre non ci sono visioni solo ideali. La guerra di Secessione non fu combattuta solo per la questione della schiavitù.
Però è difficile negare che senza l'intervento militare Hitler avrebbe potuto fare molti più danni di quanti ne abbia fatti*.

In Italia, lo spunto di riflessione è dato proprio dalla Grande Guerra. Ricordo di aver visitato il museo ad essa dedicato a Gorizia. C'era esposto un volantino austriaco del 1917 (prima di Caporetto), che rappresentava tre mappe: i confini del 1915, le concessioni diplomatiche a cui l'Austria si era detta disposta in cambio della neutralità italiana e il fronte nel 1917: si evidenziava che in due anni di guerra il confine era rimasto pressoché immutato, e peggiore rispetto alle condizioni diplomatiche proposte, e si invitavano i soldati italiani a disertare e abbandonare l'inutile strage. Si noti che nelle possibili concessioni diplomatiche non rientrava Trieste, né l'Alto Adige**.

Come è andata a finire lo sappiamo: l'Italia vinse la guerra sul Piave, e l'unità nazionale venne completata. Per via diplomatica non si sarebbe mai potuto ottenere lo stesso risultato, ovvero l'annessione del Sudtirolo fino alla Vetta d'Italia e della Venezia Giulia intera. Si può discutere se ne valesse la pena, ma non mi sento di dire che la guerra sia stata inutile.

E allora? Allora arriviamo all'Europa: l'unico mezzo per rendere inutile la guerra è la pace, la pace vera, che come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica non è solo l'assenza di guerra. La pace vera è quella che abbiamo oggi in Europa, in cui centinaia di milioni di persone stanno (relativamente) bene, hanno la possibilità di vivere, di spostarsi, di realizzarsi secondo la loro identità, la loro cultura, la loro inclinazione.

Una grossa mano a ciò l'ha data prima la Comunità Europea, ora l'Unione Europea. Oggi non ci sogneremmo mai di fare la guerra alla Slovenia per riprenderci il Carso, oggi i confini non esistono più, in piazza Transalpina a Gorizia si può passeggiare tra uno Stato e l'altro, le minoranze linguistiche sono riconosciute e tutelate in tutta Europa, all'Europeo di basket in Slovenia si poteva vedere la comunità italiana di Capodistria festeggiare la Nazionale azzurra che giocava come se fosse stata in casa. Tutte cose che 25 anni fa erano un'utopia.

Ricordiamocene quando parliamo male dell'Europa.

* Si noti che l'intervento americano nella II guerra mondiale non rientra nemmeno nei criteri che rendono ammissibile la guerra per il Catechismo della Chiesa Cattolica (cfr. il paragrafo 2309): l'intervento in Europa non rientrava nella legittima difesa, e sia in Europa che nel Pacifico era discutibile il criterio per cui "il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare". Infatti non c'erano verosimili possibilità di attacco giapponese all'America continentale, mentre l'Europa prima del D-Day era in pace dall'Atlantico alla Polonia, seppure sotto il tallone di Hitler. Siamo sicuri che una dittatura avrebbe causato più morti o più mali dei milioni di militari morti nella guerra? Ciò nonostante io sono ben felice che gli Alleati siano sbarcati in Sicilia e in Normandia.

** Poi sull'effettiva volontà di queste terre di entrare in Italia ci sarebbe molto da discutere, al netto della propaganda nazionalista che dipingeva i triestini come anelanti all'unificazione.

mercoledì 13 novembre 2013

Rem tene, verba sequentur

Sono uno sporco elitista.

90 minuti di applausi a questo post.

E i tempi supplementari per il nome del blog. Grande massima, in un mondo in cui tanti, ma tanti non conoscono le cose di cui vogliono parlare (ovvero: non sanno quello che dicono). E questo sport è elevato a dignità politica.

sabato 9 novembre 2013

Contro il Parlamento delle larghe intese

Riflettevo sul senso di inutilità che pervade la situazione politica italiana. Sembra che le cose si perpetuino sempre, che ogni sforzo sia vano, che siamo imprigionati in una nave che affonda. Sembra che alle parole dell'emergenza non riescano mai a seguire i fatti.
Anche la reazione è disillusa. L'italiano medio ascolta i proclami, prende atto delle misure che lo riguardano, cerca di adattarsi come meglio può, tirando la cinghia ancora un po', cercando di evadere qualche balzello in più. Nessuna speranza che la nave muti direzione. Nessun sussulto. Mi pare che ci sia la diffusa convinzione che fra cinque, dieci anni saremo qui a barcamenarci come ora.

Non voglio indagare qui a fondo il perché e il percome. Ci sarebbero mille cose da dire: l'indole nazionale, i politici inetti, il diffuso rifiuto della politica, l'immobilismo degli apparati burocratici ministeriali (che tagliano le gambe alle migliori riforme annegandole in codici, codicilli, decreti attuativi arzigogolati, eccetera).

Mi riaggancio però a qualche notizia dei giorni scorsi: il no porcellum day, le difficoltà sulla abolizione delle province, le lentezze sulla riforma del finanziamento pubblico dei partiti. Tre questioni al centro del dibattito da molto tempo, provvedimenti spesso invocati, anche popolari, soprattutto tre questioni su cui Letta ha preso degli impegni chiari nelle sue linee programmatiche (quelle su cui il Parlamento gli ha votato la fiducia, sia ad aprile che il mese scorso).

Il problema è che queste questioni ora sono in mano al Parlamento, lo stesso che ha votato la fiducia (amche) su queste questioni. E' il Parlamento a rallentare, soppesare, discutere, tergiversare. Un po' come accadeva con il governo Monti, che già aveva tentato la via del decreto sulle province. Ma in Italia il potere dell'esecutivo è relativo: anche i decreti vanno convertiti in legge dall'Aula, e ogni spinta al cambiamento può essere tarpata, cloroformizzata, resa innocua in un calendario dei lavori scelto con logiche politiche, attento ad altre priorità, meno intenso di quello del Governo (fateci caso: i ministri spesso lavorano anche di sabato, il Parlamento apre il lunedì pomeriggio, vota se non il martedì, e chiude di norma con il pranzo del venerdì).

lunedì 4 novembre 2013

Sul caso Cancellieri

E' giusto non fare il bene per il solo motivo che non si può fare lo stesso bene per tutti?

Secondo me no, e quindi il ministro Cancellieri è innocente di ciò di cui la si accusa.

Se è vero che ci sono molti detenuti nelle stesse condizioni di Giulia Ligresti, e quindi altrettanto meritevoli dello stesso trattamento, il ministro è colpevole (forse)  di non avere fatto tutto ciò che è in suo potere per aiutare costoro.

Ma in realtà cosa avrebbe dovuto fare, visto che questi casi non sono di sua competenza? Segnalare casi che nemmeno conosce? Aprire uno "sportello segnalazioni", magari visto quel che era successo con i suoi amici Ligresti?

Mi sembra che questo ministro non si possa tacciare di insensibilità alla situazione carceraria. Si è espressa in tempi non sospetti per l'indulto, ha incontrato le vittime del carcere.

In definitiva: cosa avrebbe dovuto fare il ministro? Sbattere giù il telefono? Dire ai Ligresti: "Guardate, avete ragione, Giulia sta male, la legge dice che dovrebbe stare fuori, ma di gente che sta dentro ingiustamente come lei ce n'è tanta, non posso mica intervenire solo per lei, sennò Travaglio cosa pensa?"

Concedo che probabilmente la Cancellieri è nel giusto per caso: è possibile che non conoscesse davvero le condizioni di Giulia Ligresti, è probabile che sarebbe intervenuta indipendentemente dalle sue condizioni, anche se non se lo fosse "meritato". Però non possiamo fare il processo alle intenzioni: lo stesso Caselli asserisce che il caso è stato verificato dagli uffici competenti, e meritava effettivamente la scarcerazione. Tanto mi basta, personalmente.