martedì 16 luglio 2013

Per un'etica condivisa

Lungo un cammino di formazione che sto seguendo in diocesi ci è stato proposta la lettura di tre libri di Enzo Bianchi: La differenza cristiana, Per un'etica condivisa e Fede e fiducia.

Ho terminato di leggere Per un'etica condivisa e provo a buttare giù qualche impressione. Condivido molte cose dell'impostazione generale che dà Enzo Bianchi: anch'io come cristiano non mi faccio un grosso cruccio della diminuzione numerica dei cristiani nelle società occidentali, fino a diventare minoranza; ho sempre trovato molto calzante la visione dei cristiani come lievito della società (che ritrovo anche nelle prime pagine de La differenza cristiana che sto leggendo), e addirittura potremmo osservare che se ci fosse tutto lievito senza impasto il lievito sarebbe addirittura inutile.
Altrettanto condivisibile il richiamo alla testimonianza nella vita ordinaria, più che alla predicazione dogmatica o - come si dice oggi - dei princìpi. Anche il modo propositivo e non impositivo di approcciarsi all'altro mi sembra una necessità a cui porre attenzione.

Mi ha fatto molto riflettere la parte sui frutti, da cui si riconoscono i cristiani: è un buon criterio di valutazione, applicabile nel concreto ma nel contempo esigente.

Mi restano però alcuni punti di perplessità che non si armonizzano con il quadro che emerge dal libro.
Il primo punto è il rapporto tra proposta e Verità.Nel libro Enzo Bianchi asserisce che il cristiano non deve rapportarsi con il non cristiano atteggiandosi come chi ha la verità in tasca, ma con un atteggiamento aperto al mettersi in discussione, citando anche l'inculturazione dei cristiani dei primi secoli nelle situazioni in cui si venivano a trovare.
Per tutti i cristiani la conoscenza della verità, del bene e del male nell'etica è sempre una conoscenza limitata e relativa, e in questo campo gli "altri" non sono gli avversari della verità bensì occasioni per interrogativi, ricerche, approfondimenti. (Enzo Bianchi, Per un'etica condivisa, Einaudi, Torino 2009, p.32)

Come si concilia questo con il fatto che il Cristianesimo ritiene di possedere una Parola rivelata che è Parola di Dio? Un cristiano dovrebbe essere convinto della Verità come insegnata da Gesù nel Vangelo.
Possiamo forse "far finta" di relativizzare tutto per amor di discussione, compresa la Verità cristiana della morte e risurrezione di Gesù, per esempio, oppure il fatto che tutti siamo figli di Dio con pari dignità, ma in cuor nostro serbando la convinzione di essere nel giusto? Ma questa non è ipocrisia? Oppure ci sono degli elementi che esulano dalla disponibilità al dialogo o al mettersi in discussione? O ancora è solo una questione di modo: la Verità va sostenuta con fare gentile e non come un'imposizione?

Allo stesso modo mi chiedo come si concili il discernimento personale, che discende dal paziente lavoro di apertura e di confronto con l'altro - con il prossimo, direi - con la struttura gerarchica della Chiesa. Per come è strutturata la cristianità a fianco della Parola c'è la Tradizione, di cui è depositaria la Chiesa, e i presbiteri consacrati mediante il sacramento dell'Ordine hanno il ruolo di pastori per i battezzati. Insomma, va bene il discernimento, ma nella Chiesa c'è anche l'auctoritas.

Un altro dubbio che mi sorge riguardo alla effettiva praticabilità, in tutti i contesti, del metodo conciliante proposto da Bianchi riguarda il fatto che per applicarlo bisogna essere in due: e se l'interlocutore non ricerca un'etica condivisa, ma persevera in quegli atteggiamenti dogmatici che lo stesso autore stigmatizza? Se dimostra un'indisponibilità al dialogo, considerando il cristiano (o la religione in generale) come retrogrado e portatore di istanze comunque bacate da un pregiudizio fideistico? Dobbiamo porgere l'altra guancia?
E' oggi oltremodo importante, per la sopravvivenza stessa dell'uomo, il riaffermare questa possibilità di un'etica condivisa: l'idea che l'etica sia solo una sovrastruttura individuale che ciascuno può costruirsi da sè e gestire in totale libertà senza preoccuparsi di plasmare con esigenze etiche la vita pubblica sociale e politica è, infatti, un'idea disumanizzante. (Enzo Bianchi, Per un'etica condivisa, Einaudi, Torino 2009, p.106)

Lo stesso Enzo Bianchi, nello stesso periodo in cui riafferma la necessità di condividere un'etica, non esita a definire alcune posizioni come "disumanizzanti", privandole della dignità di oggetto di discussione (almeno così mi pare). In questi casi, quando qualcuno sostiene invece queste posizioni, come si può declinare un dialogo?

Mi sembra eloquente anche il passaggio in cui l'autore richiede agli scienziati di astenersi dall'avventurarsi in discussioni teologiche:
Ma gli uomini delle scienze non si avventurino in opzioni teologiche nè assumano opzioni contro la teologia. (Enzo Bianchi, Per un'etica condivisa, Einaudi, Torino 2009, p.106)

Se invece lo fanno cosa si fa, li scomunichiamo? Ne ignoriamo gli argomenti, ritenendoli non degni di risposta?
Esistono quindi dei limiti alla discussione, degli argomenti che non ne possono essere tema? Se sì, quali sono? E chi li decide? Ancora i cristiani? Oppure ciascuno decide per sé cosa ritiene accettabile discutere, applicando la massima libertà personale ma rischiando di cadere nell'incomunicabilità?

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