domenica 17 febbraio 2013

50 anni, troppo forte per un soprannome

Edit: rileggo e mi accorgo che ho scritto un post veramente disordinato. L'ho scritto di getto, resta qui come fosse un elenco di appunti ad uso personale, credo che per migliorarlo dovrei praticamente riscriverlo.

Io sono del 1978, sono cresciuto praticando la pallacanestro, sono cresciuto quindi accompagnato dall'apogeo della carriera di Michael Jordan. E io tifavo sempre per qualcun altro.

Nel 1991, quando MJ vinceva il primo titolo (a 28 anni, non proprio un giovincello: aveva fatto la sua gavetta) io preferivo Magic, che lui batté nelle Finals di quell'anno. Resto dell'idea che i due giocatori siano così diversi da non essere comparabili: MJ era un "2", Magic non era inquadrabile in un ruolo. Probabilmente non avrebbero nemmeno potuto giocare 1vs1. Comunque allora Magic era già leggenda, MJ un grande realizzatore e basta.

Nel 1993 la password del mio primo PC era "WiSuns": sì, i Suns erano la squadra fresca, nuova, giovane, il Davide che lottava con il Golia Bulls. E Barkley era un personaggio come pochi: impossibile non restarne affascinati. E vinsero i Bulls, in una serie pazza, con 5 vittorie in trasferta su 6.

Nel 1995 però era impossibile non farsi prendere dalla solennità dell'"I'm back". Jordan aveva impiegato tre titoli per vedersi riconosciuta l'etichetta di miglior giocatore NBA in attività, anche grazie al ritiro di Magic.

Nel 1996 i Bulls erano in missione. Con BJ Armstrong e Luc Longley in quintetto, altri scarti d'Europa come Bill Wennington (che a Bologna chiamavano Invisibill, per capirci) e un enfant du pays come Toni Kukoc non li si poteva non sostenere. 72-10, una stagione mai in discussione.

Poi l'apice delle mie delusioni e della sua carriera: la doppia finale con i Jazz. 1997 e 1998. Stockton e Malone: se c'erano due che meritavano il titolo, loro due. Due giocatori "di una volta", etica lavorativa, serietà, fortissimi, affiatati. La squadra fuori dai grandi giri, l'allenatore tutto d'un pezzo, gli schemi eseguiti alla perfezione. Quasi una favola.
Ma Jordan diventa il più vincente di tutti i tempi. The flu game. Gara 6 del 1998: la palla rubata a Malone. Il tiro finale su Russell. Il fermo immagine con il braccio alzato. Quando la palla andò in mano a MJ lo sapevano tutti come sarebbe finita. Lui che esce dalla discussione su chi sia il più grande giocatore di basket di sempre e entra nella discussione sul più grande sportivo di sempre, assieme a Muhammed Alì, Jesse Owens, Ayrton Senna, pochi altri.

Anche io, che tifavo per i Jazz, non potevo non ammirarlo. In quella finale dai punteggi tiratissimi ci furono un paio di canestri da tre invertiti a danno dei Jazz: uno valido non convalidato a loro e uno non valido convalidato ai Bulls. Sarebbe cambiato qualcosa? No: tutti sapevano, tutti sapevamo che Jordan avrebbe trovato il modo di vincere quelle partite anche con quei sei punti in meno. Nessuno recriminava, tantomeno io. Il risultato era ineluttabile.

Jordan non perdeva. Non ricordo un tiro decisivo sbagliato. Nemmeno nel 2003, All Star Game, a 40 anni, con pochi secondi sul cronometro: tiro cadendo all'indietro, dal fondo, sopra le braccia di Kevin Garnett (Kevin Garnett!). Solo rete. Ce ne saranno, di errori, ma non li ricordo, nessuno li ricorda.

Fino al 1993 era fortissimo, atleticissimo, il migliore. Dal 1995 al 1998 fu il migliore nei momenti in cui decideva di esserlo, in attacco o in difesa. E vinceva. I suoi  stipendi annuali erano di decine di milioni di euro, oltre ogni ordine di grandezza. E tutti erano d'accordo nel dire che erano meritati, fino all'ultimo centesimo. E qualsiasi cifra sarebbe stata meritata: Jordan era semplicemente impagabile.

Sempre nel 2003, i Miami Heat itirarono il numero 23. Wait: Miami Heat? Non ci ha mai giocato! Non fa nulla. Questo è il livello di considerazione.

Ricordo che dopo un po' non si trovò un soprannome adatto. Lui era Air quando schiacciava, volava, segnava: negli anni '80. Poi fu ancora Air, ma man mano che diventava più dominante si capiva che Air non bastava più: non era più spettacolo, era dominio. Era un vincente, non uno forte. Qualcuno l' chiamava l'Alieno, rendeva l'idea ma era veramente brutto e non attecchì. A fine carriera comunque nessuno lo chiamava più Air: quelle ormai erano solo le sue scarpe.

Buon compleanno Michael Jordan. Mezzo secolo di una leggenda vivente. Una delle poche leggende meritate.

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