giovedì 10 gennaio 2019

Umiltà, umiliazione, ingiustizie

Martedì sera frate Giancarlo Paris ha tenuto una serata del suo percorso sulla Gaudete et exsultate affrontando il tema della umiltà.
Umiltà è essere ciò che si è davvero, spogliandosi di tutte le maschere, e accettandolo. Prendere atto che si è così, non si è "di più", seppure lo si vorrebbe. In questo processo può essere necessario accettare delle umiliazioni, che possono aiutare a tracciare il confine dei propri talenti, di ciò che si è. Se poi si è capaci di prendere tutti sé stessi - per quanto nella propria pochezza, nella propria umiltà - e affidarsi al Signore, si porterà molto frutto.
Frate Giancarlo ha "incarnato" questa esposizione nella figura di Benedetta Bianchi Porro, che non conoscevo.

Fra le sue umiliazioni, un episodio avvenuto all'università, quando un professore rifiutò di mettere per iscritto le domande, a lei quasi sorda, e scagliò via il libretto, sostenendo che "non si è mai visto un medico sordo".
Questa cosa mi ha fatto riflettere. Questa è una umiliazione, ma non è anche un'ingiustizia? Essere capaci di sopportare e accettare l'umiliazione comporta che si debbano accettare le ingiustizie?
Ci sono alcune umiliazioni che non sono ingiustizie: arrivare ultimi in una gara non comporta una ingiustizia, ma ci fa capire che forse dobbiamo cambiare sport.
Ci sono alcune umiliazioni che servono a tracciare un limite, pur essendo anche ingiuste. Benedetta Bianchi Porro veniva canzonata come "la zoppona". Un gesto crudele, ma che - come sottolineava lei - non faceva altro che dire una verità.
Quella del professore è un'umiliazione che traccia un limite? Certamente evidenzia una difficoltà oggettiva, ma non insuperabile: un medico sordo probabilmente potrà lavorare con i sordi meglio di un medico udente.
Come comportarsi di fronte a una umiliazione come questa, o ad altre più ingiuste ancora?
La mamma di Benedetta, dopo l'accaduto, si precipitò a Milano per dirne quattro al professore. All'appello successivo la giovane fu promossa da un assistente, mentre il docente non si presentò.
Però non sempre fare conto sulle forze umane funziona. In un altro caso, Benedetta reagì con uno schiaffo alle canzonature di alcuni coetanei tredicenni. Al momento sembrò un successo - lasciò tutti impietriti - ma, allontanandosi tutta orgogliosa, inciampò e cadde, generando altre risa. Metafora dell'errore compiuto nell'affidarsi alle proprie forze? Solo affidando a Dio le debolezze le si possono sublimare in grani d'oro.

Cambio di scena. Vicino alla stazione ferroviaria, in questi giorni, c'è un cartellone che mostra due foto. Nella prima c'è uno straniero in piazza Duomo. "David. Cerca di realizzare il suo sogno in Italia". Nella seconda c'è una ragazza bianca. "Viola. Cerca di realizzare il suo sogno in Germania". La scritta al centro recita: "Accogli come vorresti essere accolto".
Certo, è vero. Entrambi vanno via da casa, dal loro Paese per cercare di stare meglio. L'unica differenza tra le due situazioni è che una lo fa legalmente, avendo il diritto di andare in Germania. L'altro lo fa (forse*) illegalmente, dato che di visti in ingresso praticamente l'Italia non ne concede più.
Quindi la situazione di David è diversa non per colpa propria - la sua unica colpa è la lotteria della vita: essere nato nel posto sbagliato - ma per un'imposizione esterna. Legittima, certo (ogni Stato gestisce i visti come crede), ma forse un'ingiustizia, che genera un'umiliazione, una diversità.
Forse anche lui per essere umile dovrebbe accettare l'ingiustizia e l'umiliazione? Non dovrebbe cercare di essere diverso? Dovrebbe offrire tutto quel poco che ha e che può nella sua patria, magari aiutandola a crescere, come chiedono molti vescovi africani?

* per il cartellone David è eritreo, quindi al 99% ha diritto alla protezione internazionale. Ovviamente il ragionamento prescinde da questo particolare: immaginiamolo applicato a un immigrato qualsiasi.

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