giovedì 27 dicembre 2018

Altri pensieri su Paolo VI, la chiesa, il mondo

Altri pensieri sparsi suggeriti dalla lettura della biografia di Paolo VI.
Anche Montini vedeva il cambiamento della società. Una società senza più valori fondanti dati per scontati - in modo immaturo e pietistico, certo - per secoli, se non millenni.
Vedeva inoltre il pericolo di desacralizzare il cristianesimo, di renderlo - diremmo oggi - una ONG, per renderlo digeribile al mondo.
Mi viene in mente un discorso più ampio.
Non so se sia mai esistita una società con i valori "di una volta". Al cambio di secolo (non l'ultimo, quello prima) andava di moda il "medioevo cristiano". Ho i miei bei dubbi anche su quello.
Però, se dobbiamo dare una data "simbolo" del cambiamento, un buon candidato è il 1968. Prendiamo quello come spartiacque: anche in ambito ecclesiale, da lì in poi è stato sempre più difficile mantenere l'unità e, diciamo pure, l'ortodossia. Movimenti, carismi, cristianesimo à la carte, non accettazione dei dogmi (nel senso: necessità di spiegare razionalmente tutto e mancata accettazione delle verità per fede), il tutto condito dallo sdoganamento della nuova (a)morale sessuale.
Da lì in poi, possiamo individuare il nuovo set di valori che ha adottato il mondo?
Secondo molti analisti, dopo la ventata rivoluzionaria del 1968 ha trionfato il capitalismo consumistico. L'età delle libertà personali si è trasformata nell'età del pensare a sé stessi, nell'età dell'egoismo.
In questo passaggio stanno - tangenzialmente - Bockenforde (la società democratica-liberale si regge su presupposti che non può garantire), Popper (se la democrazia tollera gli intolleranti rischia la propria fine), Novak e Tocqueville (il vero liberalismo si muove in una cornice di valori necessari, che nel '700 erano scontati, senza quelli non funziona). E sta Paolo VI, quando sostiene (Populorum Progressio 42) che un umanesimo senza Dio è un umanesimo disumanizzante. Mi pare che finora non ci sia stata smentita a questa opinione - o chiamiamola pure profezia.
Dagli anni '80 in poi mi pare che il paradigma attuato sia stato più specificamente economico: l'egoismo si è tradotto nell'avere di più. La sinistra di Clinton e Blair ha spinto per la deregulation finanziaria. A scuola si lavora per dare "competenze spendibili" sul campo del lavoro. Il concetto di utilità si è sovrapposto a quello di rendimento.
Oggi però forse questo meccanismo scricchiola. Ci ha messo del suo la crisi: l'impossibilità di "avere" di più ha fatto emergere altri valori.
Leggevo da qualche parte che le reazioni riguardanti l'immigrazione sono economicamente irrazionali: qualsiasi studio o economista vi dirà che l'immigrazione è un meccanismo economicamente funzionale. Eppure è contrastata.
Altrove leggevo che le reazioni al governo giallo-verde sono altrettanto irrazionali: sono delle capre, ma sono le capre che abbiamo voluto.
Ecco, mi viene da pensare che il fallimento dei valori economicistici abbia fatto emergere un altro set di valori, più primordiale ancora: quello identitario, di clan. In fondo, ancora un'altra versione dell'egoismo.
E trovo questo amaramente ironico: sono decenni che i Papi, da Paolo VI a Francesco, chiedono di cambiare il paradigma dell'utilità economica con un paradigma diverso, più umano.
Non credo che avessero in mente questo.

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