sabato 14 marzo 2015

Cosa sono i diritti?

In questi giorni il Parlamento Europeo è stato particolarmente impegnato su questioni eticamente sensibili: prima la risoluzione Tarabella, che tra le altre cose chiedeva di garantire alle donne accesso all'aborto, poi la relazione sui diritti in cui - tra molte cautele, perifrasi, angoli smussati eccetera - si includevano anche le unioni e i matrimoni omosessuali nel panorama dei diritti civili.

Non mi interessa tanto il dettaglio delle due risoluzioni: esse sono indicazioni non vincolanti, inoltre sono scritte in modo molto prudente. Ciascuno può farsi da solo un'idea sul loro contenuto, e quanto agli argomenti controversi (unioni gay e aborto) credo che nessuno cambierà la propria convinzione in base a queste risoluzioni.

Però mi sono trovato a riflettere sui diritti. Da giovane ero convinto che la definizione di diritti fosse abbastanza chiara: il diritto alla vita, alla parola, alla libertà politica...
Però più passa il tempo, più mi rendo conto che non è così semplice determinare il perimetro dei diritti. Anzi mi chiedo se questo perimetro esista, visto che ci sono spinte molto forti, in molte direzioni, per includere tra i diritti un sacco di cose.

In effetti mi rendo conto che non mi è chiaro cosa sia un "diritto": ne so troppo poco.

L'approccio legalista è ovviamente limitato: ciò che è garantito dalla legge è sicuramente un diritto, ma non tutti i diritti sono sempre garantiti dalla legge (si pensi ai Paesi totalitari).

Se non vale l'approccio legale, significa che i diritti dovrebbero essere connaturati alla natura umana? Probabilmente, nella interpretazione più diffusa, sì. La Treccani recita:
diritti dell'uòmo Diritti che spettano alla persona in quanto essere umano, non dipendenti da una concessione dello Stato.

Però sta di fatto che se i diritti non sono riconosciuti da qualche organismo "legale" (nazionale o sovranazionale) allora è come se non esistessero.

Inoltre è un fatto che, anche se ci diciamo che i diritti sono "naturali" (e anche questa non è una parola neutra, si pensi a Hobbes), resta il fatto che il riconoscimento pubblico dei diritti passa per un processo, per così dire, "democratico" e "storico".
Democratico perché se non c'è una maggioranza che percepisca una certa cosa come diritto, o almeno una maggioranza delle élites al governo (si pensi ai diritti civili dei neri negli USA di Kennedy: non scommetterei che la maggioranza della popolazione fosse a favore), questo diritto non è riconosciuto.
Storico perché vediamo che nel tempo il panorama dei diritti evolve: ci sono diritti che man mano vengono riconosciuti, ma anche altri che vengono disconosciuti (si pensi al diritto divino delle monarchie, percepito come naturale fino al 1700).

Ma pensare che i diritti umani, che dovrebbero essere intrinseci alla natura stessa della persona, dipendano dalle maggioranze e dal contesto storico e culturale è un bel problema, è una contraddizione in termini.

Personalmente voglio continuare a pensare, forse ingenuamente, che i diritti sono effettivamente innati e naturali, e che il processo per cui il loro riconoscimento cambia è parte di un percorso di sempre maggiore conoscenza dell'animo umano da parte dell'uomo stesso, che man mano corregge gli errori delle precedenti percezioni.

Però mi sembra che, se i diritti sono una cosa così "alta", si debba andare con i piedi di piombi nell'ampliare il loro perimetro. Sicuramente i diritti individuali sono fondamentali, ed è necessario garantirli (e già su quelli il confine non è particolarmente chiaro, si pensi al discorso sulla libertà di espressione).

Inoltre: qual è il perimetro dei diritti individuali?
Avere figli, per esempio, è un desiderio o un diritto?
Potersi sposare (non solo per i gay: per tutti, dico) è un diritto? Perché dovrebbe esserlo, in fondo? Garantire il matrimonio come diritto non significa forse applicare a tutta l'umanità una costruzione molto diffusa, ma non universale? Esistono culture che contemplano la poligamia, la poliandria, la promiscuità...
Ha senso dire che potersi sposare (se lo si desidera, ovviamente) è un tratto distintivo della dignità umana? Io credo di no.
Secondo me il matrimonio (civile) resta una costruzione che ogni società si dà per strutturarsi in modo ordinato, e deve essere garantito in funzione della sua utilità sociale, non come diritto.

Essere felici è un diritto? O almeno essere liberi di ricercare la felicità (la "ricerca della felicità" americana)?
E se cercare di essere felici è un diritto, ciò significa - per esempio - che se io volessi essere più bello, convinto che ciò mi renderebbe più felice, lo Stato dovrebbe pagarmi la chirurgia estetica in nome del mio diritto alla ricerca della felicità?
Se sembra assurdo, ricordiamo che si è deciso che lo Stato paghi l'intervento di fecondazione eterologa in nome del diritto alla vita familiare delle coppie.

Non parliamo poi dei diritti sociali: possiamo affermare il diritto al lavoro, ma come la mettiamo col fatto che è impossibile garantirlo per legge?

Insomma, secondo me è necessario pesare bene cosa intendiamo come "diritti umani" propriamente detti.
Un buon criterio potrebbe essere definirli come i diritti individuali per cui è possibile una garanzia legale e pubblica: il diritto alla vita, il diritto alla libertà "di" (d'azione, di parola, di pensiero, di religione eccetera, finché non si danneggi il prossimo), il diritto alla libertà da qualsiasi tipo di oppressione, discriminazione, limitazione della libertà personale se non nei casi e nei modi stabiliti dalla legge.

Poi esistono altri livelli di diritti (i diritti civili, politici, sociali eccetera) che però stanno un gradino sotto.
Estendere troppo il perimetro dei diritti secondo me ha due conseguenze negative: sminuisce l'eccezionalità di quelli che sono veramente segno dell'umana dignità e rende sempre più difficile garantirli, i diritti.

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