giovedì 10 ottobre 2013

Sull'immigrazione

Ho sempre pensato che l'immigrazione sia un fenomeno difficile da trattare, su cui è difficile farsi un'idea chiara. Spesso l'opinione pubblica è ondivaga e si fa condizionare dalla "pancia": oggi, dopo la tragedia di Lampedusa, siamo nella fase umanistico-accogliente; si fa però presto a cambiare atteggiamento, alla prima notizia di "romeno stupratore" o "marocchino senza patente travolge bimba".
Anche di fronte alla tragedia, però, le reazioni vanno da un estremo (è colpa dei Governi africani!) all'altro (tutti hanno il diritto di venire in Europa).

Anche io non ho un'idea chiara. Metto in fila in maniera molto disordinata e non consequenziale un po' di considerazioni che ho in testa.

I fenomeni migratori sono connaturati con l'uomo, ci sono sempre stati, in tutte le epoche; certo nell'ultimo secolo i mezzi tecnici sono cambiati ed è più facile attraversare il deserto, il mare o l'oceano (come facevano i nostri bisnonni).

Quando andai in Australia, nel 2008, vidi a Melbourne un manifesto che recitava: "100 etnie, 30 lingue, 20 religioni, una sola città". I numeri non li ricordo, ma il senso era quello. Ricordo di aver avuto la sensazione che le migrazioni sono un fenomeno inarrestabile, e che tutti i nostri tentativi di arginarle siano come voler fermere un fiume con le mani.
E' però vero che l'Australia ha sì una società profondamente multietnica, ma anche una politica molto restrittiva nei confronti dell'immigrazione (favorita anche dall'isolamento geografico), e non rinuncia a regolarla con misure anche ciniche e dure.

Da noi c'è la legge Bossi-Fini: si sa che il principio è quello che può entrare in Italia solo chi ha già un lavoro qui (ovvero un contratto per un lavoro). In sé il requisito potrebbe avere un quelche senso: in fondo gli italiani andavano nelle miniere del Belgio in forza di accordi internazionali, sapendo già di troavre un posto. Però questo requisito richiederebbe agenzie di collocamento e mediatori culturali nei Paesi d'origine, come scrive Andrea Segre, servizi che oggi non ci sono.

Credo che sarebbe utile se un servizio di collegamento/collocamento fosse gestito da una qualche agenzia sovranazionale, l'ONU o almeno l'UE, magari presso le ambasciate. Ci potrebbe essere una forma di migrazione più ordinata, almeno dai Paesi più stabili.
Però resta un problema: quando non c'é lavoro che si fa, si respingono tutte le domande? E il diritto al movimento, e il diritto a cercare di stare bene? E' anche vero che da quando esistono gli Stati una loro prerogativa indiscussa è quella di poter decidere chi può permanere sul loro territorio e chi no. Non ho una risposta per questo.

C'è poi il problema di chi non sta in un Paese stabile e ordinato, in cui fare richiesta di visto presso le ambasciate: i rifugiati, i profughi di guerra eccetera. Mi pare che siano in gran parte loro a occupare i barconi, a sentire le nazionalità citate dalle cronache (e mi pare anche logico: chi può avere un visto turistico preferisce immigrare in aereo, a prezzi simili a quelli dei viaggi della disperazione).Forse per loro ci vorrebbe qualche ufficio dell'UNHCR, se non nei loro martoriati Paesi almeno nei luoghi di transito, per gestire il prima possibile la situazione.

Non mi sembra che sia praticamente realizzabile l'idea di istituire dei traghetti per rendere sicura la tratta: al di là del "quanti ne vengono", resta altamente probabile che di fronte a questa possibilità le richieste di imbarco siano molte più dei posti disponibili, per quanti siano questi, con conseguenti accalcamenti ai moli, problemi di ordine pubblico, tentativi di imbarchi clandestinie  pericolosi (come sulla Manica).
Se invece i traghetti fossero a pagamento e/o imbarcassero solo chi è provvisto di visto, allora non sarebbero né più né meno utili degli aerei.

C'è poi il tema più grande del fatto se sia giusto o meno, oltre che legale o legittimo o possibile o nelle disponibilità di ogni ordinamento giuridico, limitare le migrazioni.

Da una parte è vero che noi abitanti del Primo mondo abbiamo ben poco merito per il nostro benessere, se non quello di essere nati nel posto giusto. In questo senso sarebbe giusto dare a tutti la libertà di correggere le storture della "lotteria della vita", spostandosi dove ci sono più possibilità.

E' anche vero che forse noi non abbiamo merito, ma forse ce l'hanno avuto i nostri padri lungo le generazioni, che hanno costruito la società in cui viviamo. E qui si passa ad un argomento simile a quello di Punzi nel post linkato sopra: è vero che l'Africa parte da condizioni più svantaggiate rispetto alle condizioni di partenza europee di migliaia di anni fa, poiché subisce i condizionamenti di chi è già "arrivato" al benessere, lo sfruttamento subdolo se non più coloniale; ma è possibile che col passare dei decenni la situazione sia sempre quella? Probabilmente lo sviluppo dell'Africa è effettivamente rallentato dalle élite corrotte che detengono il potere.

Questo però rende molto problematico anche il concetto di "aiutarli a casa loro". In questa prospettiva l'unica via affidabile è quella di affidare gli aiuti a organizzazioni non governative di cui ci si fida, quando non direttamente a chi si conosce (penso ai vari missionari "riferimento" delle varie parrocchie), con conseguenti problemi di mancanza di universalità e di visione globale dell'intervento.

Le migrazioni si fermeranno solo quando le condizioni di partenza e di destinazione dei migranti si saranno equiparate, come è successo tra Italia e USA (o Australia) nel secondo dopoguerra. La prospettiva è di lungo periodo: visto che non si riesce ad aiutarli a casa loro, l'altro modo per pareggiare le condizioni è "spezzare il pane" con loro, ovvero condividere le nostre risorse accogliendoli e diventando tutti un po' più poveri in Italia o in Europa. Una specie di "decrescita felice fra i popoli".

Se quest'ultima prospettiva può essere accettabile cristianamente parlando (amare il prossimo come sé stessi, fino al dono di sé), è accettabile che sia assunta da uno Stato? E che quindi uno Stato imponga a tutti i cittadini, e non solo a quelli eventualmente cristiani o più ampiamente solidali, un aggravio di spesa sociale per perseguire ideali di uguaglianza della famiglia umana? Non si confina con lo Stato etico?
E' chiaro che parlo solo in linea teorica di un'accoglienza totale, tale da creare persino decrescita; ma il discorso - in piccolo - può valere per ogni politica sull'immigrazione: ci può essere chi ritiene che a lui della fraternità internazionale non gliene cale  e quindi ritiene di non voler destinare un centesimo alla solidarietà e all'accoglienza. Una posizione simile ha cittadinanza in uno Stato che tuteli il libero pensiero? Può essere prevaricata de jure con una tassazione più alta?

A margine, si noti che non è questo il caso dell'Italia, dove il rapporto Caritas-Migrantes ogni anno segnala che il bilancio entrate-uscite tra contributi lavorativi versati e spesa sociale per gli immigrati è positivo per lo Stato, che quindi non si impoverisce certo.

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