lunedì 2 marzo 2020

Di battesimi e di ultima parola

Altra puntata delle mie riflessioni sui tempora ac mores.
Il parroco, a San Silvestro, durante il consueto Te Deum ha presentato i numeri dell'anagrafe parrocchiale. In particolare si è detto preoccupato per il numero dei battesimi, all'incirca la metà dei nati.
Non ci sono informazioni sulla religione delle famiglie dei nati. Al di là dei numeri, però, il parroco è così preoccupato per questo trend che ha promosso incontri (CPP, commissione famiglia) al riguardo. Lui si dice stupito del fatalismo di altri suoi confratelli, che pensano solo che "va così", e non si vuole rassegnare.
Metto giù alcune riflessioni sparse.

Prima è calata la partecipazione a Messa, poi sono calati i matrimoni, c'era da aspettarsi che prima o poi calassero i battesimi. E' una cosa che si inquadra nella generale crisi di fede che pervade la nostra società. Il passo ultimo sarà il calo dei funerali, che per ora riguardano ancora la stragrande maggioranza dei morti.

Se i dati dovessero dire che i matrimoni sono calati prima e più dei battesimi, direi che l'incongruenza era quando chi non si sposava battezzava i figli. E' interessante chiedersi anche il perché: per le nonne e le mamme, si dice. A questo fatto credo sempre meno, perché ormai chi nasce non ha solo i genitori separati/conviventi, ma anche i nonni.

Allora potrebbe essere un ragionamento del tipo: farò fare a mio figlio la stessa strada che ho fatto io, da bambino. Battesimo, catechismo, oratorio, grest, poi da grande deciderà - come ho fatto io - come regolarsi. Questo atteggiamento è ambivalente: da un lato riconosce quanto di positivo c'è nella formazione cristiana (i valori, il rispetto, il comportarsi bene...) in senso etico/morale; dall'altra parte contribuisce a consolidare quel concetto per cui la Chiesa è una cosa da bambini, che da adulti si supera (1).

Se invece chi non battezza i figli è una coppia sposata in chiesa, allora è più grave, e mi dà da pensare il fatto che all'atto del matrimonio fai una pubblica promessa sull'educare i figli alla fede. Parliamo di rispetto della parola data, una robetta.

Tornando al problema principale, la questione è quindi la crisi della fede degli adulti. Su questa sono stati spesi milioni di litri di inchiostro e altri oceani ne scorreranno nei prossimi secoli, quando qualche novello Gibbon in forma di intelligenza artificiale scriverà "Declino e caduta della Chiesa cattolica". Non sarò io a dirimere questo evento epocale in qualche riga su un blog sconosciuto. Mia moglie sottolinea le colpe di noi cristiani, che non siamo attrattivi. Non ricordo chi diceva: "A me molte persone dicono: io odio i cristiani. Sono cattivi." (2)

Io aggiungo un altro tassello, guardando al quadro più generale. Secondo me la gente non va più in chiesa (e quindi non battezza più i figli) perché non serve a niente. Qual è l'utilità di essere cattolici?
Partiamo dall'utilità spiccia, pratica: i cristiani non subordinano l'accesso alla Caritas o agli ospedali alla pratica religiosa. Non c'è bisogno di andare a messa per ricevere un pacco di pasta.
Abbiamo già detto di chi apprezza il lavoro educativo della Chiesa, i valori che incarna, ma - come dimostrano i tanti genitori non praticanti che facevano battezzare i figli - non serve andare a messa per usufruire dell'oratorio.
Può esserci qualcuno che apprezza la morale cattolica, il contributo al vivere civile, la dottrina sociale, ma per fare ciò non serve andare a messa. Anche per difendere pubblicamente le posizioni della Chiesa non serve andare a messa, si pensi agli "atei devoti" alla Giuliano Ferrara.
Persino per contribuire attivamente alle attività della Chiesa non serve andare a messa, come (non) fanno regolarmente molti volontari che danno una mano alle Caritas, ai campi scuola, ai cori parrocchiali. Questa è la parte "onlus", o filosofica, o ideologica della Chiesa.

In definitiva, quindi, essere cristiani non serve per un'utilità pratica, specie in una società di matrice ancora cristiana, in cui molti dei precetti morali e di pubblica convivenza sono stati per fortuna recepiti dal senso sociale, e in cui i cristiani stessi sono accoglienti e non mettono barriere all'ingresso delle opere di carità. In queste condizioni molti possono "approfittare" dei benefici pratici del cristianesimo senza aderirvi personalmente. (3)

Un altro problema è la teodicea, la giustificazione del male. Che utilità può avere un Dio che non impedisce il male? Nella nostra società, quella della promessa del benessere (4), la sofferenza non è più considerata come un elemento della vita (Giobbe: "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore"), ma come una cosa da evitare ad ogni costo. Chi ha a che fare con i bambini sa che la preoccupazione principale dei genitori è che non soffrano. Cosa impossibile nella vita umana.
Ma anche per questo aspetto Dio è inutile, anzi Dio è considerato colpevole (con una certa incoerenza: se Dio è colpevole del male, allora perché non ha il merito per le cose belle? Quelle sono dovute?).
Riguardo a questo tema, abbiamo tanti esempi di persone che hanno affrontato cristianamente il dolore, tanti santi recenti, di cui spesso si raccontano le storie. Queste possono dare speranza, ma solo in un'ottica pienamente cristiana, che guardi oltre: per la vita nell'aldiquà, la loro testimonianza può essere eroica, ma non è compresa, è un impegno perdente, a volte irresponsabile. (5)

L'unica cosa che rimane è una scommessa per il futuro, una scommessa per l'altra vita. E non è poco: è tutto, come aveva capito già san Paolo: senza la Resurrezione, vana è la nostra fede. Credere ci dà una speranza, ci indica una possibilità, che diventa una certezza: Cristo ha vinto la morte, primizia di tutti i viventi, e in Lui risorgeremo. Moltissimi cristiani ci hanno creduto, molti hanno anche capito che in realtà è l'unica cosa che conta. Penso alla scommessa di Pascal, o al "Siamo nati e non moriremo mai più" di Chiara Corbella Petrillo.

Personalmente sono molto sensibile a questo argomento. Ma non siamo in molti ad esserlo: la nostra società, quella del tutto e subito, nipote dell'illuminismo e figlia del razionalismo, ha progressivamente emarginato il trascendente del suo orizzonte.
Tra l'altro questo ha delle conseguenze inaspettate: Roberto Rossini, presidente ACLI, ha scritto questo intervento sui cattolici in politica. Cosa c'entra? Leggiamo la seconda metà dell'intervento: la scomparsa del trascendente, della prospettiva ultima, ha fatto sparire anche una certa abitudine al rispetto, alla moderazione. Come scrive Rossini, una volta era chiaro che l'ultima parola non spettava né al potente né al popolo. La parola della politica era per forza "penultima", mentre oggi siamo abituati a voler avere sempre l'ultima parola. Mi ha stupito leggere di questo riferimento all'"oltre" in un articolo politico, ma è stato illuminante. Avere la consapevolezza di un destino finale comune, della finitezza, della precarietà (che Rossini ricorda essere etimologicamente connessa alla preghiera) aiuta a non assolutizzare le posizioni, apre alla fiducia nei confronti dell'Altro (che si chiama fede), e magari anche dell'altro. Lascia spazio alla speranza cristiana, qualcosa che la nostra società ha espulso, dando a volte l'impressione di aver rinunciato alla speranza tout-court oltre che alla speranza cristiana, basti vedere l'inverno demografico che viviamo.

Ecco che allora l'unica cosa su cui possiamo puntare per tornare a battezzare la gente è offrire una speranza. Vaste programme, diceva quello, nella società dell'utilitarismo.


(1) Poi un giorno magari rifletteremo sul fatto che nelle società non cristiane, quelle di prima evangelizzazione dei primi secoli, si battezzavano gli adulti, perché la sequela di Cristo è una cosa da adulti, come dice don Pierino: Gesù non ha mai predicato ai bambini. Battezzare i neonati ha senso in una società che è tutta cristiana, in cui l'ambiente in cui cresceranno rema tutto dalla stessa parte, allora ha senso fornire una "spiegazione" ai bambini. Ma se questi subiscono spinte in ogni direzione? Forse dovremmo curare di più la fede degli adulti? Degli anziani?
(2) Però come si fa per essere buoni: bisogna dire a tutti bravo, fai bene a fare così, fai bene a fare quello che fai, hai ragione? Dire a qualcuno "ti stai sbagliando" è una cattiveria?
(3) Questo è vero per ora, ma non so per quanto: sono convinto che se l'individualismo si diffonde man mano che gli "egoisti" crescono di numero anche la società si deteriorerà.
(4) Questo si collega a quanto scrivevo nello scorso post: la promessa di benessere, di stare tutti bene perché ne abbiamo tutti diritto, insita nella democrazia, è destinata a restare inevasa per motivi "naturali": il male appartiene a questo mondo (è un po' la "naturale disuguaglianza" di Leone XIII).
(5) Anche tra i cristiani l'atteggiamento rispetto a queste esperienze è ambivalente: c'è l'ammirazione, ma c'è anche chi esprime dubbi. Per esempio, di fronte alla figura di santa Gianna Beretta Molla, si può far notare che la sua scelta (sacrificarsi per non abortire) ha lasciato gli altri suoi figli senza una mamma, per tutta la vita.

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