giovedì 29 settembre 2016

Sul referendum costituzionale

Lunedì scorso io e mia moglie abbiamo assistito all'incontro organizzato dalle Acli bresciane e dalla Diocesi verso il referendum costituzionale. I professori Marco Olivetti (per il sì) e Mario Gorlani (per il no) hanno ragionato sulla riforma, moderati dalla direttrice del Giornale di Brescia Nunzia Vallini. E' stata una serata molto interessante, per cui spero di fare cosa gradita riportando qui gli appunti di mia moglie.


È una riforma necessaria?
SÌ: In Italia, è diffusa l’idea che le istituzioni non funzionino bene e che la Costituzione abbia bisogno di manutenzione. Siamo l’unico paese  al mondo in cui il Governo ha bisogno della fiducia della Camera e del Senato (doppia fiducia) per iniziare le sue attività. Si pone quindi il bisogno di risolvere alcuni problemi di sistema e per farlo è necessario modificare la Costituzione.
NO: Sì, una riforma è necessaria, alcune cose da correggere ci sono. Modificare la Costituzione non è una cosa impossibile ed è stato già fatto più volte, dagli anni Novanta in poi. Però uno dei nostri errori è di scaricare sulla Costituzione problemi che dipendono da coloro che ci governano (mancanza di una legge sui partiti, legge elettorale...).

Perché votare sì?
SÌ: La decisione non è biunivoca, ma ciascuna delle due posizioni assume sfaccettature diverse al suo interno. Comunque siamo indietro di  vent’anni nella risoluzione dei nostri problemi di sistema. Questa riforma dovrebbe allinearlo agli standard europei.
La riforma del bicameralismo serve a eliminare un Senato “doppione” e a conferirgli un ruolo originale. Il Senato sarà eletto tra i consiglieri regionali e i sindaci, per un totale di cento senatori, di cui cinque eletti dal Presidente della Repubblica e novantacinque dai Consigli regionali in proporzione, con almeno due senatori, un sindaco e un consigliere a regione. Queste figure avranno un doppio mandato, cioè fare contemporaneamente, per esempio, sia il sindaco, sia il senatore. Non sarà  un passaggio facile: problemi pratici saranno inevitabili. Nonostante ciò credo che il Senato possa funzionare.
Perché votare no?
NO: Anche io non mi riconosco nel no assoluto. Il no  assoluto è rischioso, pervaso di un’aura di conservatorismo costituzionale o di insensibilità di fronte alla grave crisi, non solo economica, che stiamo vivendo. Inoltre c’è la paura che il Governo si sfasci e torni una certa instabilità politica.
Secondo me la domanda migliore dovrebbe essere: “La riforma costituzionale così com’è stata scritta dà risposta ai problemi che poniamo o genererà nuove difficoltà?”. Una norma mal scritta aumenta l’incertezza. Gli articoli che danno maggiori problemi sono il 57 sulla composizione del Senato e 70 sul procedimento legislativo.

Era meglio aspettare?
NO: Sì. Questa riforma non deve essere qualcosa di teorico, ma di condiviso da tutto il popolo italiano. Ogni maggioranza non dovrebbe farsi la propria Costituzione. Invece negli ultimi anni è invalso l’uso di fare modifiche a maggioranza semplice e poi tentare l’azzardo del referendum. E’ vero che la Carta prevede anche questa modalità di modifica, ma la Carta fu scritta in un contesto proporzionale(in cui la maggioranza in Parlamento era la maggioranza nel Paese) e in cui votava il 90%. Oggi c’è il premio di maggioranza (la maggioranza in Parlamento quindi non è la maggioranza dell’elettorato) e l’astensione è alta, quindi la modifica potrebbe essere approvata senza rappresentare la maggioranza del corpo elettorale. Questo per una Costituzione è grave.
SÌ: Abbiamo già atteso troppo a lungo e non possiamo  aspettare ancora. La riforma presenta dei difetti tecnici, ma non sono decisivi. Uno dei problemi maggiori è l’articolo 70, in cui oggi si dice che le leggi si fanno se Camera e Senato sono d’accordo. Il Senato quindi compartecipa attivamente alla riforma ed è difficile pretendere che voti il proprio suicidio. In questa occasione ci si è riusciti, non sarà facile che succeda ancora.
Sarebbe meglio se la riforma fosse condivisa, cosa  resa impossibile dalla nostra arretratezza culturale. Infatti, le opposizioni tendono a porre veti, a bloccare tutto (vetocrazia); ciò non è costruttivo. Il sistema istituzionale si chiude su se stesso. D’altra parte c’è la paura diffusa che la riforma avvantaggi alcuni: se la riforma favorisse il partito al governo, o sfavorisse gli avversari (come il Porcellum approvato apposta prima delle elezioni 2006), sarei certamente contrario, ma in questo caso non vedo rischi del genere.
Parliamo del nuovo Senato.
NO: Circa questo punto, già la composizione del Senato riformato sembra inadeguata. I cinque senatori scelti dal Presidente della Repubblica per un mandato di sette anni corrono il rischio di diventare la “pattuglia del Presidente”, di orientare le maggioranze e assurgere al grado di controllori dell’andamento delle cose. Il doppio mandato, in cui senatori possono essere anche sindaci, può portare  a una confusione di ruoli, oltre che al pericolo che le persone in questione svolgano meno  bene uno dei due compiti, entrambi importanti e impegnativi. Già oggi non vediamo di buon occhio chi ha doppi mandati: da questo punto di vista, questa riforma non cambierà  le cose. Anche le tempistiche previste dalla riforma per l’attività del Senato sono strettissime e mal si conciliano con il part-time. A mio avviso sarebbe stato meglio riequilibrare il  numero dei deputati e dei senatori in funzione del nuovo ruolo regionale che si vuole dare al Senato riformato: cento sono pochi se si vuole dare importanza.
Anche per le competenze, tra quelle in cui è coinvolto il Senato secondo l’art. 70 ce ne sono di vaghe e di amplissime. Oggi si pongono nuovi elementi da considerare rispetto al passato: per esempio le normative europee sono fondamentali, e il Senato potrebbe bloccarne l’approvazione con il suo veto, se contrario rispetto alla Camera e al Governo. Lo stesso vale per quelle riforme che riguardano il funzionamento dell’amministrazione locale: per esempio il Senato potrebbe bloccare la riforma Madia?
SÌ: Non sarebbe stato meglio avere una Camera più piccola: le sue dimensioni sono in linea con quelle degli altri grandi paesi europei, ai quali intendiamo rifarci, e con la sua dimensione essa rappresenta anche i territori più piccoli. Il rischio che il nuovo Senato non rappresenti le realtà locali, ma che finisca per assomigliare a una camera partitica c’è in ogni Senato territoriale anche all’estero ed è quindi inevitabile anche da noi, specie con il brutto compromesso sull’art. 57 sulla elezione dei  senatori, ma le autonomie possono essere ben rappresentate da tale organo. L’attuale  Senato ha troppi poteri; il Senato riformato non conterà né troppo né nulla rispetto alla Camera: i problemi possono esserci, ma non dipendono dalla riforma, ma da come verrà applicata.
Parliamo del titolo quinto: assetto del rapporto tra Stato e regioni.
NO: Il decentramento, il potere alle regioni, non è stato positivo. Ma esso realizzava l’indicazione dell’art. 5. Il regionalismo ha impiegato cinquant’anni a essere messo in atto, prima con le regioni, poi con la riforma del 2001, poi con quella del 2009 (devolution) che non è stata nemmeno implementata. Ora di punto in bianco la riforma imbocca una strada antitetica rispetto al passato: il ridimensionamento delle autonomie regionali con conseguente riaccentramento, cioè la pretesa del Governo centrale di avere le risposte a tutti i problemi periferici. Le province sono state considerate più un costo da eliminare, che una risorsa su cui investire. La situazione delle regioni a statuto speciale è però rimasta invariata, perché esse hanno puntato i piedi e senza i voti siciliani non ci sarebbero stati i numeri.
L’articolo 117 prevede l’abolizione delle competenze concorrenti tra Stato e regioni, ma si intende lasciare delle norme che regolino le varie  realtà regionali: si è sostituito più che cambiato.
SÌ: Questa parte della riforma non mi piace, ma non è dannosa per il paese. L’errore è stato di voler riscrivere tutto: ci si poteva limitare a  ritoccare i punti sui quali c’era consenso, bisognava studiare la cosa in modo più approfondito. In realtà però il federalismo era già stato svuotato dalla crisi economica che ha prodotto accentramento, con il prosciugarsi delle risorse alle regioni, e dalle decisioni della Corte Costituzionale che ha sempre deliberato in favore dello Stato in caso di conflitti di competenze. Certo la riforma è un danno per le regioni in grado di autosostenersi da  sole. Tra queste il Trentino Alto Adige più che la Sicilia ha avanzato il veto.
Parliamo della legge elettorale.
NO: La legge elettorale non è materia costituzionale, ma resta uno snodo decisivo del referendum. C’è un nesso tra la riforma costituzionale e la legge elettorale, che riguarderà la Camera. Essa prevede un premio di maggioranza di340 seggi, che andranno a chi vincerà le elezioni con il 40% dei voti; le minoranze avranno 280 seggi. Essa è stata scritta in nome della legittima volontà di avere un Governo stabile.
Oggi il premio di maggioranza è del 55% dei seggi. Siamo in mano a una minoranza con un potere spaventoso! Essa è inadeguata a governare un paese come il nostro, poiché si scontra con tutti coloro che le hanno votato contro e che sono la maggioranza dell’elettorato. Non c’è consenso nel Paese.
Bisogna avere la pazienza di costruire un consenso  più ampio per coalizioni (Governo di coalizioni). In questa nostra incapacità siamo un unicum nel mondo: altrove si fa senza grossi problemi.
SÌ: Governabilità e rappresentanza sono due esigenze fondamentali per il paese. La legge elettorale deve tenere conto di entrambe e trovare un equilibrio tra le due.
Noi non ci sentiamo rappresentati dai nostri politici; i Governi lunghi che abbiamo avuto non sono stati i migliori; e i Governi più brevi non si sono potuti mettere alla prova abbastanza. Secondo me la legge dovrebbe prevedere  un voto di preferenza e i collegi uninominali corretti con le liste proporzionali. L’Italicum non fa questo, ma è comunque un sistema misto.
Non si può trascurare che se non si arriverà subito al 40% ci sarà il ballottaggio tra i primi due: voto è scegliere anche il migliore tra coloro  che ci piacciono di meno. Questo dà legittimazione.
Inoltre abbiamo tanti contropoteri (stampa, magistratura, sindacati, chiesa,...) che possono bilanciare le cose ed evitare che si vada incontro  a una dittatura. Senza premio di maggioranza rischiamo l’instabilità politica. La rappresentatività è favorita dai 280 parlamentari di minoranza, in cui c’è spazio per tutte le liste che superano il 3%.
Cosa succede se vince il sì e cosa succede se vince il no?
SÌ: Se vince il no, si formerà un governo tecnico, oppure non ci sarà un nuovo governo e si pregherà il presidente uscente di non abbandonare il suo posto.
Se vince il sì, entreremo nella fase preelettorale  e il Governo dovrà cominciare a lavorare alle riforme attuative previste dalla legge costituzionale.
NO: Se vince il sì, la legislatura avrà ancora un anno di tempo per sistemare la legge elettorale (modifica dell’Italicum), perché nelle condizioni attuali non si andrà al voto; e poi si entrerà nella stagione complicata dell’attuazione della riforma costituzionale, con un colossale cantiere aperto di norme, che ci terrà impegnati per il prossimo decennio, allo scopo di far funzionare le riforme.
Se vince il no, il premier si dimetterà ma continuerà a fare il segretario del PD e si ricandiderà alle prossime elezioni; bisognerà cambiare comunque l’Italicum, con l’aiuto di un Governo di scopo; e cominciare a lavorare per varare un nuovo testo costituzionale.

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