Ieri sera Rai5 ha passato il film Truth-Il prezzo della verità.
Gran cast (Robert Redford, Cate Blanchett), ma non ne avevo mai sentito parlare. In effetti, scopro su Wikipedia che è passato piuttosto sotto traccia.
Non un film memorabile, in effetti. Ne parliamo fra poco. Però è un film che esemplifica in modo piuttosto preciso quello che scrivevo nello scorso post sul fact-checking.
Nel film, una notizia probabilmente vera (l'accusa al presidente George W. Bush di essersi "imboscato" ai tempi del Vietnam), che rimane probabilmente vera per tutto il film, forte di molte conferme indirette, logiche, verbali, "probabilistiche", viene smontata dall'opposizione perché presentata facendo affidamento su documenti di cui non si riesce a provare l'autenticità. Anzi, fino alla fine del film restano indizi sia per il fatto che i documenti siano veri (in particolare secondo il discorso finale della protagonista, Mary Mapes, che si basa sulla "logica") sia che siano falsi (la redazione "tecnica" dei documenti rende improbabile - non impossibile - la loro autenticità).
L'idea finale che il film trasmette è che il contenuto dei documenti sia vero, pur non essendo i documenti autentici ma riprodotti.
E qui ci agganciamo a quanto scrivevo nel post scorso: se fai del fact-checking devi essere inattaccabile. Piuttosto non presentare ciò di cui non sei certo al 100%.
Il discorso che fanno i protagonisti, "hanno annegato la verità sotto una pioggia di tecnicismi, pignolerie, hanno parlato di macchine da scrivere per non parlare dei fatti", è vero. Chi puntava a smontare il fact-checking ha usato una tattica a suo modo subdola, finanche scorretta: smontare una parte dell'inchiesta per delegittimarla tutta.
Però la verità è tale se è corroborata dai fatti.
Il discorso che essa supera alcune pignolerie marginali può essere accettabile qualche volta, ma è pericolosamente sulla stessa china dei fatti "non veri, ma verosimili", tipo "i musulmani protestano in via Corsica" di cui parlavo la volta scorsa.
Tornando al film, esso risulta debole proprio perché la causa che difende non è inattaccabile. E' un film "a tesi", come ce ne sono tanti. Ma di solito questi film hanno un "lieto fine", se non sulla pellicola, almeno delle sovraimpressioni finali, in cui si spiega quanto avessero ragione i "buoni", come gli sia stata fatta giustizia postuma. Stavolta le sovraimpressioni finali non rendono ragione di ciò, anzi rendono (onestamente) conto che i procedimenti giudiziari hanno dato torto ai protagonisti.
Anche sulla sceneggiatura, mi pare che ci siano alcuni buchi: come mai un'inchesta già iniziata quattro anni prima rimane nel cassetto per quattro anni e poi salta fuori all'ultimo minuto utile, senza lasciare il tempo per le verifiche? Ha senso una cosa così? Può una professionista affermata come la protagonista affidarsi a delle copie di documenti di una fonte praticamente sconosciuta? E' difficile non farsi venire il dubbio che espone anche la commissione d'indagine finale: è possibile che le convinzioni della protagonista abbiano avuto una parte nel farla propendere per l'autenticità dei documenti?
Forse l'intenzione della pellicola era solo una riflessione sul giornalismo, ma certo non si crea empatia con i protagonisti, se questi ti lasciano sempre il dubbio sulla correttezza dei loro comportamenti (basta vedere come hanno trattato la fonte).
Chicca in negativo gli osceni tentativi di traduzione dei "giochi di parole" e degli acronimi (CYA, FEA).
Nessun commento:
Posta un commento