Segnalo questo scambio su Lisander, contenitore che non conoscevo.
A Danilo Breschi che scrive di conservatorismo, risponde Flavio Felice.
Volevo citare dei tratti, ma non riesco nemmeno a sceglierli. Lettura molto interessante.
Solo due brevi parole per la Germani Brescia.
Dopo il capolavoro in semifinale con Trapani, la finale è andata com'è andata. Milano e Bologna sono di un altro pianeta, qualche volta capita che siano dallo stesso lato del tabellone, bisogna essere bravi a infilarsi in quel caso, ad approfittare dell'occasione. Missione compiuta.
Si poteva vincere gara 1, ma l'effetto sarebbe stato solo perdere in 4 invece che in 3 partite. Lo abbiamo già visto qualche anno fa, in semifinale contro Milano, battuta in gara 1 al Forum e poi venuta a vincere due volte a Brescia. Certo, sarebbe stata una festa avere due partite di finale in casa.
I giocatori, nbravi tutti. Purtroppo c'è un motivo se non giocano in squadre di Eurolega, ma hanno fatto il meglio. Da ex lungo, Miro Bilan è stato davvero fantastico, un'enciclopedia di pallacanestro. Bella anche la festa in piazza dopo la finale, con i giocatori in mezzo alla gente, alle famiglie, ai bambini.
Che gran Giro d'Italia che è uscito fuori quest'anno, senza le stelle al via!
Praticamente nessuna tappa deludente, praticamente solo quella aostana di Champoluc, compensata da un finale spettacolare, due ore in punta di sedia a vedere cosa succedeva. Merito di Yates, sono contento per lui, e demerito di Del Toro e dell'ammiraglia UAE che hanno buttato via il primo posto praticamente rinunciando a provarci, in modo stranissimo. Avevano cominciato a perdere la corsa quando hanno lasciato (loro e la EF, ma la maglia rosa l'avevano loro) Van Aert a 10 minuti, aprendo la possibilità che potesse scollinare il Finestre prima del gruppo. Con un uomo a testa a tirare il gruppo avrebbero potuto tenere la fuga a 5 minuti e avere Van Aert riassorbito in salita. Ma poi, quando vedi Yates guadagnare un minuto, e poi andare in maglia virtuale, perché non reagire? Il ciclismo è bello anche per questi momenti.
Alcuni appunti sparsi. Sorpresa positiva l'Astana, che bravo Scaroni! Si è visto il crescendo di forma, è partito in sordina ma la seconda metà l'ha fatta sempre davanti. Lidl-Trek oltre le aspettative già alte, hanno vinto tappe con 3 corridori diversi nonostante il forfait di Ciccone dopo Gorizia.
Molto
deludenti Q35 (Pidcock insufficiente), Soudal (va bene che Landa è caduto, ma
Maigner e tutti quelli che non erano Garofoli trasparenti), Decathlon
tranne un ottimo Proudhomme (bel futuro, deve decidere se diventare un
gregario alla Majka o uno scalatore da fuga/pois alla Ciccone o Barguil)
controbilanciato da un Sam Bennett assolutamente impresentabile. Pure
Polti tradita da Piganzoli.
Ineos ha raccolto secondo me meno del
seminato. Premio Fantomas a Rubio ottavo alla fine. Storer decimo come
lo scorso anno ma stavolta dopo il Tour of the Alps ci si aspettava
tutti di più.
Torniamo sul quinto referendum, quello sulla cittadinanza. Ne sento parlare poco, rispetto a quello che mi sarei aspettato. Mi sarei aspettato che il dibattito si sarebbe concentrato più che altro su questo quesito, invece mi pare che si parli di tutti più o meno allo stesso modo. Forse è dovuto al fatto che la forza trascinante è la CGIL.
Nel merito, è il quesito più semplice e comprensibile di tutti: ridurre da 10 a 5 anni il tempo di residenza minimo per poter richiedere la cittadinanza.
Se dovessi giudicare nell’empireo, cinque anni da quando si mette
piede in Italia mi sembrerebbero pochi. Si obietta che in realtà ci sono
i tempi biblici della burocrazia italiana, che fanno sì che una domanda
venga evasa in tre o quattro anni, perciò quando si dice cinque in
pratica diventano almeno otto. Ma sempre dall’empireo potrei ribattere
che la legge modificata dal referendum direbbe cinque e non otto, e se
domani si risolvessero i problemi burocratici (…) qualcuno potrebbe
avere la cittadinanza dopo cinque anni e un giorno.
Al di là della
evidente impossibilità di questo discorso puramente ipotetico, al nostro
Candide che vive nell’empireo si può ribattere che in realtà i cinque
anni sono solo uno dei molti requisiti per la cittadinanza: ci sono
anche la fedina penale pulita, propria e dei famigliari, la conoscenza
della lingua (il livello B1 è tale che metterebbe in difficoltà anche un
buon numero di autoctoni…), la residenza certificata e continuativa, la
capacità contributiva, oltre alle spese vive della pratica che fanno da
barriera d’ingresso. Considerando che in giro per l’Europa 10 anni sono
sostanzialmente una eccezione (come noi tra i grandi e medi Paesi
occidentali solo la Spagna richiede una attesa così lunga, in mezzo a
molte leggi da 5/6 anni) io non vedo ostacoli.
L’unica controindicazione che mi sovviene, che però più che una obiezione è una specie di ricatto, è che il requisito di fedina penale pulita da parte dei familiari conviventi è una possibile arma di pressione quando le seconde generazioni danno problemi, cosa che statisticamente (vedi anche la Francia) succede piuttosto di frequente. Un ragazzo problematico viene magari tenuto a bada (o spedito dagli zii d’origine) se rischia di mettere a repentaglio la richiesta di cittadinanza; una volta arrivata la carta d’identità questo mezzo di pressione viene meno. Ma, come scrivevo, si tratta di una specie di ricatto.
Due osservazioni più generali. La prima: qualche tempo fa la Corte Europea di Giustizia ha condannato Malta per la “vendita” di passaporti maltesi, sostenendo che "Una siffatta prassi non consente di accertare il necessario vincolo di solidarietà e di lealtà tra uno Stato membro e i suoi cittadini”. Questa sentenza sembra suggerire che la cittadinanza va “meritata” e che criteri troppo laschi non sono accettabili nell’UE. Non credo che sia decisamente il caso dei cinque anni di cui parla il referendum, visto che è la stessa norma presenta in molti altri Stati, ma è una impostazione interessante.
Secondo me tutta questa attenzione e cautela è data dalla
“definitività” della attribuzione di cittadinanza, che una volta data
non si può togliere (se non in casi estremamente eccezionali). E vengo
alla seconda osservazione: secondo me bisognerebbe dare molto più peso
alla residenza che non alla cittadinanza. Come se fosse una specie di
“cittadinanza a tempo”: per il principio no taxation without
representation, dopo un certo tempo in cui vivo e pago le tasse in un
posto dovrei votare lì, come anche (cose che succede già) usufruire lì
di sanità e servizi pubblici. Allo stesso modo, se da un po’ non vivo in
Italia potrei anche perdere il diritto di votare qui, per recuperarlo
quando torno. Insomma, ci dovrebbe essere meno differenza tra cittadini e non cittadini nella vita di tutti i giorni. Più residenza, meno cittadinanza!
Trovo qualche momento per buttare giù qualche impressione sui referendum prossimi venturi. Lo faccio partendo da questo articolo.
Sul primo quesito, sulla disciplina di licenziamenti e reintegri, mi par di capire che la scansione è stata: una volta c’era l’articolo 18 per tutti i dipendenti di aziende sopra i 15 dipendenti, poi si sono introdotte varie leggi, tra cui Fornero, Jobs Act e sentenze della Consulta, che hanno creato una situazione più frammentata. Il referendum ripristinerebbe l’obbligo di reintegro (l’azienda non se la cava “semplicemente” pagando) per una parte di queste casistiche, i licenziamenti collettivi (quindi non si tornerebbe al vecchio articolo 18), passando da un giudice che deve valutare se siano stati effettuati per motivi giudicati illegittimi.
Sul secondo quesito, riguardante l’importo degli indennizzi per licenziamenti nelle piccole imprese, si vuole abrogare il limite di sei mensilità (aumentabili fino a 14 in alcuni casi) consentendo al giudice di decidere caso per caso.
Sul terzo quesito, riguardante i contratti a termine, si vuole ripristinare l’obbligo di esplicitare la causale. Principio secondo me sacrosanto, ma che probabilmente verrà aggirato con causali generiche tipo “picco di lavoro” per cambiare poco o nulla a livello pratico, con solo qualche scartoffia in più. Si potrà forse dimostrare l’inconsistenza di queste motivazioni fittizie passando da un giudice.
Questi primi tre quesiti mi sembrano tutti sulla stessa falsariga: il principio che si vuole perseguire è corretto. Le imprese magari lamenteranno gli oneri, i lacci e lacciuoli e così via, ma è anche vero che numeri alla mano la libertà e flessibilità introdotta dal Jobs Act non ha portato a chissà quale aumento di contratti e vivacità di lavoro. Nel perseguire questo principio, però, i referendum sono formulati in modo tale che l’effetto sia limitato e interessi pochi casi. Tra l’altro tutte le possibilità che verrebbero introdotte con la nuova disciplina richiederebbero l’intervento del giudice, che se in astratto è opportuno – è giusto che un giudice valuti ogni caso a sé stante prendendo decisioni specifiche – in pratica vuol dire imbarcarsi nei tempi biblici della giustizia, soprattutto civile, e nei relativi costi. Quanti lavoratori hanno la voglia o la possibilità di impegnarsi in anni di contenzioso, invece di accettare comunque un indennizzo? Alla fine cambierebbe probabilmente poco, con in più un effettivo aggravio di burocrazia e carico giudiziario, senza contare (secondo quesito) che avere un quadro più certo e meno aleatorio potrebbe essere gradito non solo alle imprese ma anche ai lavoratori. Ciò non toglie, tornando a bomba, che io sia d’accordo coi principi verso cui tendono tutti e tre i referendum.
Sul quarto quesito, sulla responsabilità tra appalti e subappalti, la questione è complessa. Se non ho capito male, già oggi il committente e la ditta appaltatrice sono corresponsabili con le imprese subappaltatrici in caso di infortuni ai dipendenti di queste ultime, ma con una eccezione: ciò non si applica quando l’attività dell’appaltatrice sia totalmente estranea a quella del committente, che quindi non ha competenza in quel campo, che è specifico dell’appaltatrice. Detta così, sembra che – a differenza degli altri casi – l’attuale disciplina segua un principio corretto. E però i casi in cui il committente finisce per lavarsene le mani della sicurezza dei subappalti possono essere molti, troppi, stante la abitudine di creare società ad hoc per certi bandi, magari con motivazioni finanziarie (vari soci che investono il loro capitale in una impresa costituita per l’occasione) o, anche senza arrivare alle imprese ad hoc, vista comunque l’ampia diffusione dei subappalti e delle esternalizzazioni. Il risultato è che capita che delle imprese prendano appalti per lavori su cui hanno poca o nulla competenza specifica, che quindi viene delegata ampiamente, delegando anche la responsabilità. Si consideri poi che il criterio sugli appalti è solitamente il massimo ribasso, perciò la pressione sulla sicurezza è alta. La soluzione ai problemi di sicurezza allora qual è? In teoria dovrebbero essere più controlli e più ispettori. Il referendum vuole – si può dire in due modi: più responsabilità/corresponsabilità ai massimi livelli, che suona bene, oppure: più sanzioni anche ai massimi livelli, che invece può essere letto come un approccio punitivo che abbiamo visto anche a destra su tanti altri ambiti. Quanto al massimo ribasso, il problema c’è sempre stato e sempre ci sarà, non è oggetto del referendum ma mi pare anche che non si sia mai trovato un metodo funzionale per superare questo metodo e le sue controindicazioni.
Grande è la confusione sotto il cielo, tanto che sulla cittadinanza tornerò un’altra volta…
Un paradosso ambulante: l’uomo che è stato un pilastro della “space opera” raramente lasciava New York. E di solito prendeva il treno.
mi ricorda Salgari, l'uomo che descrisse mondi esotici e avventurosi senza allontanarsi mai dalla pianura padana.
Salgari e Asimov, due pilastri della letteratura per ragazzi. A 10-12 anni divoravo il primo, il secondo l'ho conosciuto un po' tardi - probabilmente l'età giusta è l'adolescenza tra i 15 e i 20 ma l'ho divorato ugualmente.
E entrambi non li rileggo, per evitare il fatto che "invecchiano male". Ma sarà vero, poi, di Asimov? Forse i cicli sì, ma le novelle, molte novelle sono geniali a ogni età.
Alla morte di un papa è normale fare dei bilanci.
Papa Francesco lascia, secondo me, una impronta dottrinale forte, la Laudato si', una impronta pastorale ben visibile ma non so se altrettanto forte e una eredità problematica.
Cominciamo dalla Laudato Si'. Prima di essa non c'era una sistemazione organica del tema ecologico nella dottrina sociale della Chiesa. Francesco inoltre non ha solo parlato di ecologia, cosa che si sarebbe potuta fare in molti modi, ma ha legato il tema a un'impostazione complessiva, quella dell'ecologia integrale, che unisce ("tutto è connesso") la tematica ambientale a quella sociale e pure a quella etica. Un mondo che genera "scarti" tra le persone, tra i bambini non nati, non può non generare scarti anche nell'ambiente. La cosa assomiglia parecchio alla connessione che fece madre Teresa di Calcutta quando nel discorso di accettazione del Nobel parlò dell'aborto come maggiore minaccia alla pace.
Questa impostazione di condanna dello scarto e della sopraffazione di uomini su altri uomini si è tradotta in una forte attenzione pastorale per le periferie, per i poveri, per gli immigrati. Anche a livello episcopale le nomine hanno seguito questa attenzione, e mi pare che oggi le diocesi siano più impostate, nella loro attività, verso questi richiami "sociali" (che purtroppo spesso sono un po' gli unici che rimangono a livello mediatico, ma è sempre papa Francesco che ci ricorda che "la Chiesa non è una ONG"). Non sono convinto che questa attenzione sarà prioritaria in maniera definitiva, ho la sensazione che una parte della Chiesa l'abbia un po' subita.
Si tratta infatti di una sensibilità marcatamente "di sinistra", e si vede bene quando questa è trasferita all'economia. Un'altra espressione ad effetto di Francesco è quella che parla di "un'economia che uccide". Francesco era probabilmente l'ultimo critico del capitalismo, sistema ormai trionfante in tutto il mondo e dato per presupposto sia in sistemi liberali che nelle dittature. E' come se la famosa "fine della storia" di Fukuyama, che tutti ormai hanno riconosciuto come un abbaglio, per il sistema economico sia invece effettivamente avvenuta.
E qui veniamo alla considerazione "politica" del suo pontificato. La parte sociale ed economica è stata certamente di "sinistra", anche se oggi la sinistra occidentale si qualifica più per i temi etici e i cosiddetti "diritti civili", su cui il papa è rimasto saldo alla dottrina, e quindi di "destra". Marx inorridirebbe, visto che Bergoglio si è trovato ben più a sinistra della sinistra occidentale sulla "struttura", ma tant'è, viviamo in tempi strani.
E questa collocazione è stata il problema di Bergoglio come di Paolo VI.
Non
è vero che sono stati espressione della fazione più "di sinistra" della
Chiesa. Ci sono molte posizioni più "di sinistra" nella chiesa,
dai teologi della liberazione ieri alla conferenza episcopale tedesca
oggi fino a gente con un piede dentro e uno fuori come Noi siamo Chiesa.
Al massimo Bergoglio e Montini sono stati espressione delle posizioni più "di sinistra" che fossero anche papabili.
Però
le loro aperture di inizio pontificato sono state prese al volo dai
progressisiti più progressisti per cercare di tirare acqua al mulino di
posizioni più avanzate di quelle effettivamente espresse dal papato, da
qui la percezione "più di sinistra" che poi è stata inevitabilmente frustrata ma che ha creato un'etichetta.
Con
Montini ci riuscirono abbastanza (la riforma liturgica è andata molto
oltre quelli che erano gli auspici vaticani), con Bergoglio meno ma
creando comunque un gran movimento centrifugo.
Il sinodo sull'Amazzonia
negli auspici di molti doveva essere il grimaldello per ridiscutere il
sacerdozio, il celibato e il diaconato femminile, ma partorì un
topolino; la questione della conferenza episcopale tedesca non è ancora
rientrata, e comunque ci sono anche molte altre conferenze episcopali
che fanno di testa loro, non solo in senso conservatore ma anche su questioni come matrimoni gay o comunione alle persone in condizione irregolare.
Quindi Paolo VI e Francesco, che avevano iniziato il pontificato all'insegna dell'accoglienza e del dialogo con il mondo (che dal loro punto di vista, sono sicuro, era in perfetta buona fede un'accoglienza forti delle proprie certezze: "tu interlocutore sentiti accolto, curato, ascoltato, poi man mano capirai la profondità dell'amore di Cristo che si traduce nell'insegnamento della Chiesa") hanno passato la seconda metà del pontificato a cercare di chiudere il recinto dopo le fughe in avanti di alcuni, che hanno interpretato questa accoglienza come una riforma dottrinale. Paolo VI non ci riuscì, Bergoglio ha cercato di ricentralizzare parecchie decisioni ma le conferenze episcopali nazionali create dopo il Concilio ormai hanno una autonomia spiccata e camminano comunque con le proprie gambe.
Per questi motivi il conclave prossimo è il più importante da quelli del 1978, quando ci si trovava a dover trovare un Papa che potesse gestire una situazione che stava sfuggendo di mano con molte spinte centrifughe. Il conclave del 2005 era "telefonato", quello del 2013 fu improvviso e le fazioni non si erano "preparate". Adesso sono anni che c'è chi lavora dietro le quinte.
Con tutto che la strada dell'autonomia locale, nazionale, persino diocesana secondo me è comunque abbastanza segnata.
Si è visto anche nella questione del sinodo della chiesa italiana, dove la votazione dell'assemblea ha bocciato la sintesi scritta dai vescovi. Ci sono movimenti centrifughi di difficile gestione: la Chiesa non è una democrazia, e voglio vedere se questo fatto della votazione da parte di assemblee allargate si ripeterà; queste spinte richiedono risposta; e però se le Conferenze nazionali devono dare queste risposte perché più vicine ciascuna alla loro "base", in Vaticano la sinodalità è stata progressivamente accantonata. Bergoglio ha proposto numerosi "commissariamenti" di ordini e enti e ha imposto dall'alto alcune novità anche agli ordini monastici, si dice malviste.
Ma ormai i processi sono stati avviati, per usare un'altra espressione cara a papa Francesco. I migliori auguri - o meglio, le migliori preghiere allo Spirito - perché il prossimo Papa avrà davanti un compito di mediazione assai arduo.
Negli USA è in corso una battaglia tra l'amministrazione Trump e alcune università tra le più prestigiose del Paese. Università private, di quelle con rette costose e frequentate dai figli della classe dirigente. Quelle della Ivy League.
Ho sempre pensato che il senso ultimo della libertà di insegnamento e (quindi) delle scuole private sia esattamente il fatto che possano fare da argine o da forma di resistenza quando lo stato prende derive autoritarie.
Il prezzo di questa riserva di resistenza è, in tempi "normali", la presenza di diplomifici (per esempio in Italia) o scuole profondamente classiste (la Ivy League, appunto) o di varie tendenze discutibili, settarie quando non antiscientifiche (scuole parentali, steineriane, creazioniste...). Non tutte le scuole private ovviamente sono così, ma se l'insegnamento è libero allora è libero anche in queste direzioni.
Ma sono prezzi che secondo me è giusto pagare come "assicurazione" per i tempi grami, vedi da noi per esempio il ruolo delle scuole religiose in Alto Adige nella resistenza "culturale" al fascismo.
Tra le molte cose che ha detto don Luigi Ciotti sabato scorso nell'incontro in teatro, ha fatto anche riferimento al gruppo Abele, in cui è impegnato da 60 anni.
Cioè dal 1965, quando aveva 20 anni.
La comunità di Sant'egidio è del 1968, con Andrea Riccardi.
Nello stesso anno mosse i primi passi la Comunità Papa Giovanni XXIII di don Benzi.
Enzo Bianchi fonda Bose nel 1965.
Quello dell'immediato post Concilio fu davvero un periodo di grandi fermenti. Non mi pare che più di recente siano nate esperienze così forti e durature.
Ogni epoca ha la sua modalità di espressione evangelica. Nei decenni seguenti a quell'epoca ci fu anche il fiorire dei movimenti.
Chissò qual è la modalità di espressione evangelica di quest'epoca.
Domenica ho visto Maria, il film sugli ultimi giorni di Maria Callas.
Sono rimasto piuttosto deluso. In parte è colpa mia, non ero informato sull’impostazione del film che andavo a vedere. L’unica informazione preventiva che avevo era il ricordo di lunghissimi applausi alla presentazione a Venezia e grandi lodi alla recitazione di Angelina Jolie, anche se alla fine la Coppa Volpi andò a Nicole Kidman. Mi aspettavo un film con più musica, molta più musica, e più a tutto tondo sulla carriera e la figura di Maria Callas.
Il film si concentra invece solo sui suoi ultimi giorni, pur narrando anche spezzoni di passato. La scelta è discutibile, la Callas “è” l’opera e la Callas non è nulla senza l’opera, ma legittima. Un po’ come fare un film su Enzo Ferrari senza le auto.
Faccio questa premessa per mettere le mani avanti: forse il
mio giudizio negativo sul film è troppo influenzato da questo fatto, dalle
aspettative sbagliate. E però a me pare che ci siano vari altri difetti. Il
film è lento, capisco che non è un film d’azione ma resta troppo lento, sembra quasi francese,
per usare il tagliente commento di un vecchio cineasta…
Inoltre non è un film sulla vita della Callas, ma ciò nonostante dà troppo per
scontati molti passaggi, ci sono troppi sottointesi, cose appena accennate che
lo spettatore deve sapere da sé. Cosa è successo nella carriera della diva, la
sua lotta col peso, chi è la madre, il rapporto “da diva” con il pubblico, persino
chi è Aristotele Onassis e come si svilupperà la loro storia (e cosa c’entra
Jackie), troppe cose si capiscono solo conoscendo la storia della Callas,
perché il film accenna solo, ma non spiega, non racconta, non
approfondisce Però se uno spettatore
conosce la Callas, allora si aspetta probabilmente di vedere più Callas, qualcosa
di più sulla sua carriera e sull’opera in generale.
Belli alcuni momenti, come quando il coro (immaginario) canta il Trovatore davanti alla Torre Eiffel, e ottima l’interpretazione dei tre personaggi principali. La Jolie regge il film da sola, ma anche Favino e la Rohrwacher fanno il loro più che degnamente.
Sul casting femminile ho qualche dubbio. La produzione ha
fatto un favorone alla Callas scegliendo Angelina Jolie per interpretarla,
visto che lei era decisamente più brutta. Però questo fa sì che io non sia
riuscito a vedere la Callas, ma abbia visto sempre la Jolie, quelle labbra sono
inconfondibili.
Anche Alba Rohrwacher mi è parsa poco credibile come trucco, è
troppo giovane per l’età che rappresenta. Curiosamente avevo già trovato lo
stesso difetto ne L’amica geniale, in
cui invece avevano provato a farla più giovane di quel che è, anche lì con
risultati discutibili.
Voto finale: 5.
Quest’anno il Giorno del Ricordo è stato caratterizzato, a Ospitaletto, dalla polemica tra maggioranza e opposizione sulla conferenza organizzata dall’amministrazione, con la presenza dell’esule Aldo Duiella e di tal Roberto Gatta Zini in rappresentanza del Comitato 10 febbraio, una associazione che si occupa di promuovere iniziative per questa ricorrenza.
Il comunicato stampa della lista Insieme per Ospitaletto, senza nominarlo, se la prende con Gatta Zini. Con ottime ragioni, a sentire l’intervista rilasciata dieci giorni fa a E’LiveBrescia Tv. Anche l’associazione di cui è volto prominente, Brescia ai Bresciani, negli ultimi mesi si è resa protagonista di forti polemiche nella nostra città, con tanto di risposte e presidi da parte di associazioni antifasciste.
Il comunicato a mio parere invece sbaglia a prendersela con il Comitato 10 febbraio, che a giudicare dal sito è associazione magari “di parte” come ce ne sono tante ma apolitica e che fa un lavoro comunque meritorio nel promuovere una ricorrenza che dovrebbe essere abbastanza condivisa, anche secondo le parole del Presidente della Repubblica riportate anche dalla lista Insieme per Ospitaletto.
A questo proposito, è vero che anche dopo l'istituzione di questa Giornata permane una certa ritrosia ideologica, un certo stigma che etichetta questa commemorazione come una festa "dei fascisti". A me pare inopportuno invitare una persona dalla militanza così esplicita come Gatta Zini, proprio perché può nuocere alla maturazione della ricorrenza come momento condiviso e unitario, confermando invece quella brutta percezione di festa di parte. Tra l'altro non è nemmeno uno storico di professione, alla fine è un semplice appassionato dell'argomento, e come tale ne parla, quando invece una competenza storica professionale potrebbe forse aiutare a avere uno sguardo più completo sui tragici e complessi fatti riguardanti le genti giuliano-dalmate.
Liberissimo di farlo, naturalmente, ed è vero che ha già portato questo incontro in altri Comuni, e
anche a scuola (si trovano le testimonianze in rete). Per quelle poche informazioni parziali che ho trovato, forse incomplete, erano Comuni di amministrazione leghista, ma tant'è.
I manifesti che ho trovato in rete riguardo queste iniziative risalgono a almeno due anni fa.
Secondo me anche lo stesso il Comitato 10 febbraio dovrebbe riflettere sul fatto se sia opportuno o meno, proprio nell'ottica di non ghettizzare la ricorrenza, inviare come proprio rappresentante una persona con questo profilo, che negli ultimi mesi è stata il volto di una formazione politica di destra contestata e divisiva.
Cosa che tra l'altro varrebbe per ogni associazione apartitica: è il caso di avere come "volto" un politico impegnato a livello provinciale con un partito? Magari due o tre anni fa la situazione era diversa, ma le cose cambiano, e anche la visibilità pubblica di certe posizioni diventa meno compatibile con una ricorrenza condivisa.
E come dovrebbe pensarci il Comitato, avrebbe potuto accorgersi del problema anche l'amministrazione comunale.
La quale ha comunque già dato prova di saper ricordare questi fatti in clima più condiviso, per esempio in occasione dell’intitolazione del parco Norma Cossetto e lo scorso anno con lo spettacolo di Sergio Mascherpa. Speriamo che l'anno prossimo torni a farlo.
* Nell'intervista Gatta Zini si esibisce in
tutto il repertorio delle formazioni di ispirazione neofascista: “il fascismo è
un fenomeno storico” (classica argomentazione che si usa per circoscrivere al
passato il fascismo, dichiarando quindi quella categoria inapplicabile al
presente) da cui però si può “attingere” qualcosa (ah sì?), i riferimenti
culturali a Rauti, agli avanguardisti, a Marinetti, fino al “dico non dico”
finale: "Ma alla fine siete fascisti, sì o no?" "Nessuna delle due".
Sono stato a vedere Conclave.
Un buon thriller, un po' lento in alcuni passaggi. L'elezione finale è telefonata, poi arriva il colpo di scena che a me "teologicamente" pare abbastanza ininfluente*, non è mica la papessa Giovanna.
Il soggetto è chiaramente costruito per solleticare un certo tipo di pubblico, ma ha una solida qualità filmica. Si fa vedere, e ogni dieci minuti aggiunge un colpo di scena.
Resta un thriller, con ampi passaggi inverosimili.
Che ci siano trattative, politica e pure colpi bassi in un conclave penso che lo possiamo dare per assodato.
Che si arrivi a comprare voti lo trovo veramente inverosimile, non perché non ci siano cardinali a cui piace il lusso, ma il lusso è una cosa, i soldi sul conto in banca un'altra, ma soprattutto trovo assolutamente inverosimile che un papabile si metta a contattare cardinali per corromperli: magari se ne conosce bene uno o due può rischiare, ma se appena ne trova uno su cui sbaglia valutazione si gioca completamente la faccia e l'elezione, è un rischio troppo grande.
E i documenti nascosti nella testiera del papa, ma figuriamoci... roba da James Bond. Io credo che il papa possa tranquillamente usare un cassetto, al più chiuso a chiave, senza che debba temere che le suore di turno si mettano a rovistare.
Anche il "cattivo" (uno dei...), il cardinal Toscani, è una macchietta, la summa mefistofelica del prete cattivo e retrogrado, con un Castellitto ottimamente calato nella parte dell'antipatico. Io penso che una posizione così, pubblicamente espressa in un conclave, non sia realistica, anche perché non converrebbe al cardinale in questione.
Il film ha portato alla nomination di Isabella Rossellini per l'Oscar come migliore attrice non protagonista. A me pare un ruolo veramente troppo ridotto per poter giudicare una interpretazione come straordinaria. Sapevo della nomination prima della visione, e a un certo punto sono arrivato a immaginare che fosse lei a tirare i fili di tutto, ad aver convocato la suora nigeriana, ad aver nascosto i documenti - magari falsi - nella stanza del papa, e mi aspettavo che saltasse fuori qualcosa. Invece niente, non è così, anche lei sparisce verso fine film. Di solito le nomination ad attori non protagonisti vanno a coprotagonisti, o antagonisti, o comunque personaggi importanti nel film. In Conclave ci sono almeno cinque personaggi più importanti di lei, tutti i cardinali in vista.
E c'è un'altra cosa che mi ha colpito su questi personaggi e questo cast: sono tutti anziani.
E' un film che si sarebbe potuto girare con attori solo sopra i sessant'anni, e non ci sarebbe stato niente di strano. Sarebbe stato più realistico di altre parti del film.
Questa è la riflessione che dovrebbe fare la chiesa: da sempre è una gerontocrazia. Ha senso questa cosa?
Poi, è vero, oltre che tutti anziani sono anche tutti uomini. Su questo argomento non mi inoltro, ci sono anche questioni teologiche in ballo (la differenza di genere comporta differenza di carismi e ruoli?). Non mi pare che la stessa cosa si possa dire per l'esclusione dei giovani.
* a quanto si capisce c'è una persona con apparato genitale maschile, cresciuto da uomo e che non ha mai desiderato cambiare il proprio sesso, che da analisi mediche incidentalmente scopre di avere degli organi interni femminili. Al di là del fatto che sia possibile o meno, che problema dovrebbe esserci? Magari abbiamo già avuto papi con forme di ermafroditismo non visibile, nei lunghi secoli in cui queste analisi non si potevano fare.