La scorsa settimana il Vangelo quotidiano ha letto il capitolo 7 di Marco. Nei versetti 1-24 Gesù condanna l'osservanza che da lì in poi si è chiamata farisaica delle leggi, a scapito dell'obbedienza del cuore.
Venerdì sera, invece, ho sentito il nostro Vescovo Luciano Monari commentare il passo della "regola d'oro" ("Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti", Mt 7,12), descrivendola come una regola euristica di comportamento per valutare se fare o meno una certa azione o scelta e riferendola agli insegnamenti di Rabbi Hillel, che però l'aveva enunciata nella sua forma negativa ("non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te").
Una volta di più, mi sono ritrovato a ragionare sul Cristianesimo, e sull'essere cristiani.
Il Cristianesimo è una religione impegnativa: non è sufficiente un'adesione formale ai precetti (checché se ne dica), e non è sufficiente "non fare il male", ma è necessario fare il bene. La rivoluzione dalla formula negativa a quella positiva della regola di comportamento cambia tutto, e rende tutto più difficile: come scrisse Dante, gli ignavi stanno - giustamente - all'inferno. E più ci penso, più credo che l'inferno sia pieno di peccati di omissione, più che di tutti gli altri.
D'altra parte, non potrebbe essere altrimenti: l'adesione formale a un formulario svilisce la libertà dell'Uomo, il suo libero arbitrio, la scelta da fare ogni giorno tra bene e male. Solo nella libertà si può raggiungere la pienezza della responsabilità personale, e nel contempo dell'umanità. E questo rende la sfida quotidiana del cristiano terribilmente affascinante e stimolante.
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