È una riforma necessaria?
SÌ: In Italia, è diffusa l’idea che le istituzioni non
funzionino bene e che la Costituzione abbia bisogno di manutenzione. Siamo
l’unico paese al mondo in cui il Governo
ha bisogno della fiducia della Camera e del Senato (doppia fiducia) per
iniziare le sue attività. Si pone quindi il bisogno di risolvere alcuni
problemi di sistema e per farlo è necessario modificare la Costituzione.
NO: Sì, una riforma è necessaria, alcune cose da correggere
ci sono. Modificare la Costituzione non è una cosa impossibile ed è stato già
fatto più volte, dagli anni Novanta in poi. Però uno dei nostri errori è di
scaricare sulla Costituzione problemi che dipendono da coloro che ci governano
(mancanza di una legge sui partiti, legge elettorale...).
Perché votare sì?
SÌ: La decisione non è biunivoca, ma ciascuna delle due
posizioni assume sfaccettature diverse al suo interno. Comunque siamo indietro
di vent’anni nella risoluzione dei
nostri problemi di sistema. Questa riforma dovrebbe allinearlo agli standard
europei.
La riforma del bicameralismo serve a eliminare un Senato
“doppione” e a conferirgli un ruolo originale. Il Senato sarà eletto tra i consiglieri
regionali e i sindaci, per un totale di cento senatori, di cui cinque eletti
dal Presidente della Repubblica e novantacinque dai Consigli regionali in
proporzione, con almeno due senatori, un sindaco e un consigliere a regione.
Queste figure avranno un doppio mandato, cioè fare contemporaneamente, per esempio,
sia il sindaco, sia il senatore. Non sarà
un passaggio facile: problemi pratici saranno inevitabili. Nonostante
ciò credo che il Senato possa funzionare.
Perché votare no?
NO: Anche io non mi riconosco nel no assoluto. Il no assoluto è rischioso, pervaso di un’aura di
conservatorismo costituzionale o di insensibilità di fronte alla grave crisi,
non solo economica, che stiamo vivendo. Inoltre c’è la paura che il Governo si
sfasci e torni una certa instabilità politica.
Secondo me la domanda migliore dovrebbe essere: “La riforma
costituzionale così com’è stata scritta dà risposta ai problemi che poniamo o genererà
nuove difficoltà?”. Una norma mal scritta aumenta l’incertezza. Gli articoli
che danno maggiori problemi sono il 57 sulla composizione del Senato e 70 sul
procedimento legislativo.
Era meglio aspettare?
NO: Sì. Questa riforma non deve essere qualcosa di teorico,
ma di condiviso da tutto il popolo italiano. Ogni maggioranza non dovrebbe
farsi la propria Costituzione. Invece negli ultimi anni è invalso l’uso di fare
modifiche a maggioranza semplice e poi tentare l’azzardo del referendum. E’
vero che la Carta prevede anche questa modalità di modifica, ma la Carta fu
scritta in un contesto proporzionale(in cui la maggioranza in Parlamento era la
maggioranza nel Paese) e in cui votava il 90%. Oggi c’è il premio di
maggioranza (la maggioranza in Parlamento quindi non è la maggioranza
dell’elettorato) e l’astensione è alta, quindi la modifica potrebbe essere
approvata senza rappresentare la maggioranza del corpo elettorale. Questo per
una Costituzione è grave.
SÌ: Abbiamo già atteso troppo a lungo e non possiamo aspettare ancora. La riforma presenta dei
difetti tecnici, ma non sono decisivi. Uno dei problemi maggiori è l’articolo
70, in cui oggi si dice che le leggi si fanno se Camera e Senato sono
d’accordo. Il Senato quindi compartecipa attivamente alla riforma ed è
difficile pretendere che voti il proprio suicidio. In questa occasione ci si è
riusciti, non sarà facile che succeda ancora.
Sarebbe meglio se la riforma fosse condivisa, cosa resa impossibile dalla nostra arretratezza
culturale. Infatti, le opposizioni tendono a porre veti, a bloccare tutto (vetocrazia);
ciò non è costruttivo. Il sistema istituzionale si chiude su se stesso. D’altra
parte c’è la paura diffusa che la riforma avvantaggi alcuni: se la riforma
favorisse il partito al governo, o sfavorisse gli avversari (come il Porcellum
approvato apposta prima delle elezioni 2006), sarei certamente contrario, ma in
questo caso non vedo rischi del genere.
Parliamo del nuovo Senato.
NO: Circa questo punto, già la composizione del Senato
riformato sembra inadeguata. I cinque senatori scelti dal Presidente della
Repubblica per un mandato di sette anni corrono il rischio di diventare la
“pattuglia del Presidente”, di orientare le maggioranze e assurgere al grado di
controllori dell’andamento delle cose. Il doppio mandato, in cui senatori
possono essere anche sindaci, può portare
a una confusione di ruoli, oltre che al pericolo che le persone in
questione svolgano meno bene uno dei due
compiti, entrambi importanti e impegnativi. Già oggi non vediamo di buon occhio
chi ha doppi mandati: da questo punto di vista, questa riforma non
cambierà le cose. Anche le tempistiche
previste dalla riforma per l’attività del Senato sono strettissime e mal si
conciliano con il part-time. A mio avviso sarebbe stato meglio riequilibrare
il numero dei deputati e dei senatori in
funzione del nuovo ruolo regionale che si vuole dare al Senato riformato: cento
sono pochi se si vuole dare importanza.
Anche per le competenze, tra quelle in cui è coinvolto il
Senato secondo l’art. 70 ce ne sono di vaghe e di amplissime. Oggi si pongono
nuovi elementi da considerare rispetto al passato: per esempio le normative
europee sono fondamentali, e il Senato potrebbe bloccarne l’approvazione con il
suo veto, se contrario rispetto alla Camera e al Governo. Lo stesso vale per
quelle riforme che riguardano il funzionamento dell’amministrazione locale: per
esempio il Senato potrebbe bloccare la riforma Madia?
SÌ: Non sarebbe stato meglio avere una Camera più piccola:
le sue dimensioni sono in linea con quelle degli altri grandi paesi europei, ai
quali intendiamo rifarci, e con la sua dimensione essa rappresenta anche i
territori più piccoli. Il rischio che il nuovo Senato non rappresenti le realtà
locali, ma che finisca per assomigliare a una camera partitica c’è in ogni
Senato territoriale anche all’estero ed è quindi inevitabile anche da noi,
specie con il brutto compromesso sull’art. 57 sulla elezione dei senatori, ma le autonomie possono essere ben
rappresentate da tale organo. L’attuale
Senato ha troppi poteri; il Senato riformato non conterà né troppo né
nulla rispetto alla Camera: i problemi possono esserci, ma non dipendono dalla
riforma, ma da come verrà applicata.
Parliamo del titolo quinto: assetto del rapporto tra Stato e
regioni.
NO: Il decentramento, il potere alle regioni, non è stato
positivo. Ma esso realizzava l’indicazione dell’art. 5. Il regionalismo ha
impiegato cinquant’anni a essere messo in atto, prima con le regioni, poi con
la riforma del 2001, poi con quella del 2009 (devolution) che non è stata
nemmeno implementata. Ora di punto in bianco la riforma imbocca una strada antitetica
rispetto al passato: il ridimensionamento delle autonomie regionali con conseguente
riaccentramento, cioè la pretesa del Governo centrale di avere le risposte a tutti
i problemi periferici. Le province sono state considerate più un costo da
eliminare, che una risorsa su cui investire. La situazione delle regioni a
statuto speciale è però rimasta invariata, perché esse hanno puntato i piedi e senza
i voti siciliani non ci sarebbero stati i numeri.
L’articolo 117 prevede l’abolizione delle competenze
concorrenti tra Stato e regioni, ma si intende lasciare delle norme che
regolino le varie realtà regionali: si è
sostituito più che cambiato.
SÌ: Questa parte della riforma non mi piace, ma non è dannosa
per il paese. L’errore è stato di voler riscrivere tutto: ci si poteva limitare
a ritoccare i punti sui quali c’era
consenso, bisognava studiare la cosa in modo più approfondito. In realtà però
il federalismo era già stato svuotato dalla crisi economica che ha prodotto
accentramento, con il prosciugarsi delle risorse alle regioni, e dalle
decisioni della Corte Costituzionale che ha sempre deliberato in favore dello
Stato in caso di conflitti di competenze. Certo la riforma è un danno per le
regioni in grado di autosostenersi da
sole. Tra queste il Trentino Alto Adige più che la Sicilia ha avanzato
il veto.
Parliamo della legge elettorale.
NO: La legge elettorale non è materia costituzionale, ma
resta uno snodo decisivo del referendum. C’è un nesso tra la riforma
costituzionale e la legge elettorale, che riguarderà la Camera. Essa prevede un
premio di maggioranza di340 seggi, che andranno a chi vincerà le elezioni con
il 40% dei voti; le minoranze avranno 280 seggi. Essa è stata scritta in nome
della legittima volontà di avere un Governo stabile.
Oggi il premio di maggioranza è del 55% dei seggi. Siamo in
mano a una minoranza con un potere spaventoso! Essa è inadeguata a governare un
paese come il nostro, poiché si scontra con tutti coloro che le hanno votato
contro e che sono la maggioranza dell’elettorato. Non c’è consenso nel Paese.
Bisogna avere la pazienza di costruire un consenso più ampio per coalizioni (Governo di coalizioni).
In questa nostra incapacità siamo un unicum nel mondo: altrove si fa senza grossi
problemi.
SÌ: Governabilità e rappresentanza sono due esigenze
fondamentali per il paese. La legge elettorale deve tenere conto di entrambe e
trovare un equilibrio tra le due.
Noi non ci sentiamo rappresentati dai nostri politici; i
Governi lunghi che abbiamo avuto non sono stati i migliori; e i Governi più
brevi non si sono potuti mettere alla prova abbastanza. Secondo me la legge
dovrebbe prevedere un voto di preferenza
e i collegi uninominali corretti con le liste proporzionali. L’Italicum non fa
questo, ma è comunque un sistema misto.
Non si può trascurare che se non si arriverà subito al 40%
ci sarà il ballottaggio tra i primi due: voto è scegliere anche il migliore tra
coloro che ci piacciono di meno. Questo
dà legittimazione.
Inoltre abbiamo tanti contropoteri (stampa, magistratura,
sindacati, chiesa,...) che possono bilanciare le cose ed evitare che si vada
incontro a una dittatura. Senza premio
di maggioranza rischiamo l’instabilità politica. La rappresentatività è
favorita dai 280 parlamentari di minoranza, in cui c’è spazio per tutte le
liste che superano il 3%.
Cosa succede se vince il sì e cosa succede se vince il no?
SÌ: Se vince il no, si formerà un governo tecnico, oppure
non ci sarà un nuovo governo e si pregherà il presidente uscente di non
abbandonare il suo posto.
Se vince il sì, entreremo nella fase preelettorale e il Governo dovrà cominciare a lavorare alle
riforme attuative previste dalla legge costituzionale.
NO: Se vince il sì, la legislatura avrà ancora un anno di
tempo per sistemare la legge elettorale (modifica dell’Italicum), perché nelle
condizioni attuali non si andrà al voto; e poi si entrerà nella stagione
complicata dell’attuazione della riforma costituzionale, con un colossale
cantiere aperto di norme, che ci terrà impegnati per il prossimo decennio, allo
scopo di far funzionare le riforme.
Se vince il no, il premier si dimetterà ma continuerà a fare
il segretario del PD e si ricandiderà alle prossime elezioni; bisognerà
cambiare comunque l’Italicum, con l’aiuto di un Governo di scopo; e cominciare
a lavorare per varare un nuovo testo costituzionale.
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