(Terza e ultima parte, prosegue da qui e qui)
Questa consapevolezza ci dovrebbe quindi rendere gioiosi, positivi, in modo visibile. Gli Atti degli Apostoli descrivono così i primi cristiani, a cui ritorniamo: " Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo" (At 2,46-47). Se noi cristiani fossimo così, le missioni sarebbero già fatte, ogni giorno.
E a volte questo succede: don Mauro ci ha raccontato che l'ICFR in alcuni casi (pochi, certo, ma buoni) ha fatto conoscere la bellezza dell'esperienza cristiana a genitori che da tempo non pensavano più alla Chiesa come a una casa, tanto che ci sono state persone che hanno ricominciato a frequentare l'ambiente, ad avvicinarsi alla parrocchia, magari anche da situazioni irregolari. Una coppia "avvicinata" con l'ICFR si è sposata quest'anno. Queste sono le vere missioni.
Però non sempre ciò che traspare non è la gioia. Mia moglie una volta intavolò un discorso simile con una persona, che le disse: "Io vedo i cristiani come persone cattive". Non so perché: forse avrà a che fare con l'idea di persone che portano con sé dei divieti, o con l'aria di chiusura dell'ambiente di cui ho spesso sentito parlare. Di certo quella parola, "cattivi", fa male.
Quindi secondo me le missioni non andrebbero fatte "ad extra", ma "ad intra", per rendere più cristiana la comunità che già si dice tale. Per evangelizzare noi stessi, insomma. Prendiamo l'impegno di essere più gioiosi, a costo di fare cose che sembrano infantili come la "buona azione quotidiana" delle Giovani Marmotte: proponiamo una "azione di gioia quotidiana", cercando di farla diventare un'abitudine.
Le missioni potrebbero poi essere rivolte ai giovani e ai giovanissimi, che magari non hanno ancora delibarato la loro libera scelta di abbandonare la vita di Chiesa: cerchiamo di rimotivarli.
Infine, vedrei bene le missioni rivolte agli ultimi, nel solco di quanto dice papa Francesco e di quanto ci ha mostrato concretamente Giovanni Borghetti, che anche l'ultima Voce Amica ricorda. Prendiamo l'impegno di andare a fare qualche visita al ricovero. Invitiamo all'ultimo dell'anno, o - perché no - a qualche altra festa le famiglie di chi ha problemi mentali. Facciamo due parole con lo zingaro che ci chiede l'elemosina alla stazione o fuori dalla chiesa. Non proponiamo solo pellegrinaggi a Roma, ma anche visite molto più vicino, a Canton Mombello o a Verziano, magari per animare la Messa. Portiamo l'Eucarestia nella casa degli ammalati.
Sono impegni che mi voglio prendere personalmente, e che potremmo proporre a tutta la comunità. Credo che una parrocchia grande come la nostra abbia le forze e le risorse per attivare tutti i contatti disponibili, magari anche in CPP. L'importante secondo me è che l'attenzione agli ultimi non sia delegata alla Caritas, pur importantissima e fondamentale, ma che questa diventi strumento di coinvolgimento diretto di chi davvero vuole essere missionario.
Chiediamo al Signore di donarci tramite l'Eucarestia la forza di essere missionari gioiosi verso i piccoli e gli ultimi, noi che siamo consapevoli delle possibilità che ci apre il Sacramento e l'unione con Cristo.
In questo modo potremo essere veri testimoni. Il beato Paolo VI ci ricorda che "L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni" (Evangelii Nuntiandi, 41), ma non parlava dei testimoni di Geova che suonano i campanelli...
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