sabato 31 maggio 2025

Verso il referendum sulla cittadinanza

Torniamo sul quinto referendum, quello sulla cittadinanza. Ne sento parlare poco, rispetto a quello che mi sarei aspettato. Mi sarei aspettato che il dibattito si sarebbe concentrato più che altro su questo quesito, invece mi pare che si parli di tutti più o meno allo stesso modo. Forse è dovuto al fatto che la forza trascinante è la CGIL.

Nel merito, è il quesito più semplice e comprensibile di tutti: ridurre da 10 a 5 anni il tempo di residenza minimo per poter richiedere la cittadinanza.

Se dovessi giudicare nell’empireo, cinque anni da quando si mette piede in Italia mi sembrerebbero pochi. Si obietta che in realtà ci sono i tempi biblici della burocrazia italiana, che fanno sì che una domanda venga evasa in tre o quattro anni, perciò quando si dice cinque in pratica diventano almeno otto. Ma sempre dall’empireo potrei ribattere che la legge modificata dal referendum direbbe cinque e non otto, e se domani si risolvessero i problemi burocratici (…) qualcuno potrebbe avere la cittadinanza dopo cinque anni e un giorno.
Al di là della evidente impossibilità di questo discorso puramente ipotetico, al nostro Candide che vive nell’empireo si può ribattere che in realtà i cinque anni sono solo uno dei molti requisiti per la cittadinanza: ci sono anche la fedina penale pulita, propria e dei famigliari, la conoscenza della lingua (il livello B1 è tale che metterebbe in difficoltà anche un buon numero di autoctoni…), la residenza certificata e continuativa, la capacità contributiva, oltre alle spese vive della pratica che fanno da barriera d’ingresso. Considerando che in giro per l’Europa 10 anni sono sostanzialmente una eccezione (come noi tra i grandi e medi Paesi occidentali solo la Spagna richiede una attesa così lunga, in mezzo a molte leggi da 5/6 anni) io non vedo ostacoli.

L’unica controindicazione che mi sovviene, che però più che una obiezione è una specie di ricatto, è che il requisito di fedina penale pulita da parte dei familiari conviventi è una possibile arma di pressione quando le seconde generazioni danno problemi, cosa che statisticamente (vedi anche la Francia) succede piuttosto di frequente. Un ragazzo problematico viene magari tenuto a bada (o spedito dagli zii d’origine) se rischia di mettere a repentaglio la richiesta di cittadinanza; una volta arrivata la carta d’identità questo mezzo di pressione viene meno. Ma, come scrivevo, si tratta di una specie di ricatto.

Due osservazioni più generali. La prima: qualche tempo fa la Corte Europea di Giustizia ha condannato Malta per la “vendita” di passaporti maltesi, sostenendo che "Una siffatta prassi non consente di accertare il necessario vincolo di solidarietà e di lealtà tra uno Stato membro e i suoi cittadini. Questa sentenza sembra suggerire che la cittadinanza va “meritata” e che criteri troppo laschi non sono accettabili nell’UE. Non credo che sia decisamente il caso dei cinque anni di cui parla il referendum, visto che è la stessa norma presenta in molti altri Stati, ma è una impostazione interessante.

Secondo me tutta questa attenzione e cautela è data dalla “definitività” della attribuzione di cittadinanza, che una volta data non si può togliere (se non in casi estremamente eccezionali). E vengo alla seconda osservazione: secondo me bisognerebbe dare molto più peso alla residenza che non alla cittadinanza. Come se fosse una specie di “cittadinanza a tempo”: per il principio no taxation without representation, dopo un certo tempo in cui vivo e pago le tasse in un posto dovrei votare lì, come anche (cose che succede già) usufruire lì di sanità e servizi pubblici. Allo stesso modo, se da un po’ non vivo in Italia potrei anche perdere il diritto di votare qui, per recuperarlo quando torno. Insomma, ci dovrebbe essere meno differenza tra cittadini e non cittadini nella vita di tutti i giorni. Più residenza, meno cittadinanza!

venerdì 30 maggio 2025

Verso i referendum sul lavoro

Trovo qualche momento per buttare giù qualche impressione sui referendum prossimi venturi. Lo faccio partendo da questo articolo.

Sul primo quesito, sulla disciplina di licenziamenti e reintegri, mi par di capire che la scansione è stata: una volta c’era l’articolo 18 per tutti i dipendenti di aziende sopra i 15 dipendenti, poi si sono introdotte varie leggi, tra cui Fornero, Jobs Act e sentenze della Consulta, che hanno creato una situazione più frammentata. Il referendum ripristinerebbe l’obbligo di reintegro (l’azienda non se la cava “semplicemente” pagando) per una parte di queste casistiche, i licenziamenti collettivi (quindi non si tornerebbe al vecchio articolo 18), passando da un giudice che deve valutare se siano stati effettuati per motivi giudicati illegittimi.

Sul secondo quesito, riguardante l’importo degli indennizzi per licenziamenti nelle piccole imprese, si vuole abrogare il limite di sei mensilità (aumentabili fino a 14 in alcuni casi) consentendo al giudice di decidere caso per caso.

Sul terzo quesito, riguardante i contratti a termine, si vuole ripristinare l’obbligo di esplicitare la causale. Principio secondo me sacrosanto, ma che probabilmente verrà aggirato con causali generiche tipo “picco di lavoro” per cambiare poco o nulla a livello pratico, con solo qualche scartoffia in più. Si potrà forse dimostrare l’inconsistenza di queste motivazioni fittizie passando da un giudice.

Questi primi tre quesiti mi sembrano tutti sulla stessa falsariga: il principio che si vuole perseguire è corretto. Le imprese magari lamenteranno gli oneri, i lacci e lacciuoli e così via, ma è anche vero che numeri alla mano la libertà e flessibilità introdotta dal Jobs Act non ha portato a chissà quale aumento di contratti e vivacità di lavoro. Nel perseguire questo principio, però, i referendum sono formulati in modo tale che l’effetto sia limitato e interessi pochi casi. Tra l’altro tutte le possibilità che verrebbero introdotte con la nuova disciplina richiederebbero l’intervento del giudice, che se in astratto è opportuno – è giusto che un giudice valuti ogni caso a sé stante prendendo decisioni specifiche – in pratica vuol dire imbarcarsi nei tempi biblici della giustizia, soprattutto civile, e nei relativi costi. Quanti lavoratori hanno la voglia o la possibilità di impegnarsi in anni di contenzioso, invece di accettare comunque un indennizzo? Alla fine cambierebbe probabilmente poco, con in più un effettivo aggravio di burocrazia e carico giudiziario, senza contare (secondo quesito) che avere un quadro più certo e meno aleatorio potrebbe essere gradito non solo alle imprese ma anche ai lavoratori. Ciò non toglie, tornando a bomba, che io sia d’accordo coi principi verso cui tendono tutti e tre i referendum. 

Sul quarto quesito, sulla responsabilità tra appalti e subappalti, la questione è complessa. Se non ho capito male, già oggi il committente e la ditta appaltatrice sono corresponsabili con le imprese subappaltatrici in caso di infortuni ai dipendenti di queste ultime, ma con una eccezione: ciò non si applica quando l’attività dell’appaltatrice sia totalmente estranea a quella del committente, che quindi non ha competenza in quel campo, che è specifico dell’appaltatrice. Detta così, sembra che – a differenza degli altri casi – l’attuale disciplina segua un principio corretto. E però i casi in cui il committente finisce per lavarsene le mani della sicurezza dei subappalti possono essere molti, troppi, stante la abitudine di creare società ad hoc per certi bandi, magari con motivazioni finanziarie (vari soci che investono il loro capitale in una impresa costituita per l’occasione) o, anche senza arrivare alle imprese ad hoc, vista comunque l’ampia diffusione dei subappalti e delle esternalizzazioni. Il risultato è che capita che delle imprese prendano appalti per lavori su cui hanno poca o nulla competenza specifica, che quindi viene delegata ampiamente, delegando anche la responsabilità. Si consideri poi che il criterio sugli appalti è solitamente il massimo ribasso, perciò la pressione sulla sicurezza è alta. La soluzione ai problemi di sicurezza allora qual è? In teoria dovrebbero essere più controlli e più ispettori. Il referendum vuole – si può dire in due modi: più responsabilità/corresponsabilità ai massimi livelli, che suona bene, oppure: più sanzioni anche ai massimi livelli, che invece può essere letto come un approccio punitivo che abbiamo visto anche a destra su tanti altri ambiti. Quanto al massimo ribasso, il problema c’è sempre stato e sempre ci sarà, non è oggetto del referendum ma mi pare anche che non si sia mai trovato un metodo funzionale per superare questo metodo e le sue controindicazioni.

Grande è la confusione sotto il cielo, tanto che sulla cittadinanza tornerò un’altra volta…