Torniamo sul quinto referendum, quello sulla cittadinanza. Ne sento parlare poco, rispetto a quello che mi sarei aspettato. Mi sarei aspettato che il dibattito si sarebbe concentrato più che altro su questo quesito, invece mi pare che si parli di tutti più o meno allo stesso modo. Forse è dovuto al fatto che la forza trascinante è la CGIL.
Nel merito, è il quesito più semplice e comprensibile di tutti: ridurre da 10 a 5 anni il tempo di residenza minimo per poter richiedere la cittadinanza.
Se dovessi giudicare nell’empireo, cinque anni da quando si mette
piede in Italia mi sembrerebbero pochi. Si obietta che in realtà ci sono
i tempi biblici della burocrazia italiana, che fanno sì che una domanda
venga evasa in tre o quattro anni, perciò quando si dice cinque in
pratica diventano almeno otto. Ma sempre dall’empireo potrei ribattere
che la legge modificata dal referendum direbbe cinque e non otto, e se
domani si risolvessero i problemi burocratici (…) qualcuno potrebbe
avere la cittadinanza dopo cinque anni e un giorno.
Al di là della
evidente impossibilità di questo discorso puramente ipotetico, al nostro
Candide che vive nell’empireo si può ribattere che in realtà i cinque
anni sono solo uno dei molti requisiti per la cittadinanza: ci sono
anche la fedina penale pulita, propria e dei famigliari, la conoscenza
della lingua (il livello B1 è tale che metterebbe in difficoltà anche un
buon numero di autoctoni…), la residenza certificata e continuativa, la
capacità contributiva, oltre alle spese vive della pratica che fanno da
barriera d’ingresso. Considerando che in giro per l’Europa 10 anni sono
sostanzialmente una eccezione (come noi tra i grandi e medi Paesi
occidentali solo la Spagna richiede una attesa così lunga, in mezzo a
molte leggi da 5/6 anni) io non vedo ostacoli.
L’unica controindicazione che mi sovviene, che però più che una obiezione è una specie di ricatto, è che il requisito di fedina penale pulita da parte dei familiari conviventi è una possibile arma di pressione quando le seconde generazioni danno problemi, cosa che statisticamente (vedi anche la Francia) succede piuttosto di frequente. Un ragazzo problematico viene magari tenuto a bada (o spedito dagli zii d’origine) se rischia di mettere a repentaglio la richiesta di cittadinanza; una volta arrivata la carta d’identità questo mezzo di pressione viene meno. Ma, come scrivevo, si tratta di una specie di ricatto.
Due osservazioni più generali. La prima: qualche tempo fa la Corte Europea di Giustizia ha condannato Malta per la “vendita” di passaporti maltesi, sostenendo che "Una siffatta prassi non consente di accertare il necessario vincolo di solidarietà e di lealtà tra uno Stato membro e i suoi cittadini”. Questa sentenza sembra suggerire che la cittadinanza va “meritata” e che criteri troppo laschi non sono accettabili nell’UE. Non credo che sia decisamente il caso dei cinque anni di cui parla il referendum, visto che è la stessa norma presenta in molti altri Stati, ma è una impostazione interessante.
Secondo me tutta questa attenzione e cautela è data dalla
“definitività” della attribuzione di cittadinanza, che una volta data
non si può togliere (se non in casi estremamente eccezionali). E vengo
alla seconda osservazione: secondo me bisognerebbe dare molto più peso
alla residenza che non alla cittadinanza. Come se fosse una specie di
“cittadinanza a tempo”: per il principio no taxation without
representation, dopo un certo tempo in cui vivo e pago le tasse in un
posto dovrei votare lì, come anche (cose che succede già) usufruire lì
di sanità e servizi pubblici. Allo stesso modo, se da un po’ non vivo in
Italia potrei anche perdere il diritto di votare qui, per recuperarlo
quando torno. Insomma, ci dovrebbe essere meno differenza tra cittadini e non cittadini nella vita di tutti i giorni. Più residenza, meno cittadinanza!