Ritorno su un concetto che ho accennato nell'ultimo post, a commento della Settimana Sociale di Cagliari: l'irrilevanza dei cattolici nel dibattito pubblico.
Mi sono molto interrogato sull'origine di questo fatto. A Cagliari, come ho scritto, questa sensazione era strisciante ma ben presente, come un ospite sgradito. Vedo che anche un altro reduce da Cagliari, Luigino Bruni, ha notato questo fatto. Però mi pare che il sui intervento sia stranamente carente nell'analizzare i motivi di questa irrilevanza.
Io ho le mie idee al riguardo, e - come forse si è capito - ritengo che questo fatto derivi dalla prolungata incapacità di affrontare le mutazioni culturali intervenute nel dibattito pubblico degli ultimi (almeno) 30 anni.
Secondo me abbiamo risposto al rapido cambiamento dell'ambiente italiano - che prima era diffusamente pervaso da un cattolicesimo abitudinario - con pratiche sbagliate, scorciatoie. Quello che da qualche commentatore è stato chiamato "ruinismo": il rapporto diretto con la politica, le richieste da Oltretevere ai ministri "vicini", un certo tipo di collateralismo. Questo modo di fare ha portato ad alcuni effimeri risultati, ma ha anche aumentato lo scollamento tra l'opinione pubblica generale e l'immagine della Chiesa. Il rapporto con i politici, inoltre, ha accomunato la gerarchia ecclesiastica ai peggiori vizi di una classe ormai in caduta libera nella considerazione pubblica, la famosa "casta" (basti pensare all'effetto del caso Bertone). Si legga a questo proposito Ernesto Galli della Loggia nel 2013.
Tra l'altro proprio l'emergere del disprezzo verso la politica è un'altra spia dell'incapacità dei cristiani di agire sul livello culturale: abbiamo lasciato che ciò accadesse, nonostante la politica sia considerata dalla Dottrina Sociale della Chiesa come una forma alta di carità, anzi a volte abbiamo cavalcato l'onda. Incapaci sia di formare nuove generazioni di politici cattolici, che potessero attenuare questo disprezzo con il loro operato, sia di formare cittadini in grado di discernere e non farsi trasportare dalla "pancia". Emblematica in questo senso la testimonianza di Mario Sberna su Avvenire.
In realtà negli anni '90 si tentò un'operazione diversa: il progetto culturale della Chiesa italiana. Una bellissima idea, nata forse anche per rispondere alla sparizione del referente politico abituale, la DC. Peccato che negli anni Duemila questa iniziativa si sia prima trascinata, poi sia stata accantonata, a favore del ritorno a un dialogo diretto con la politica. Penso che ora, dopo 10-15 anni, si possa tracciare un bilancio, purtroppo molto negativo, di quest'atteggiamento.
I più grandi "successi" di quel periodo furono il no ai DICO e la bocciatura del referendum sulla legge 40 (quella sulla procreazione assistita). Oggi ci ritroviamo con le unioni civili - ben più estese dei DICO, di cui i gay si sarebbero potuti accontentare - e con una legge 40 smontata pezzo dopo pezzo dalla Corte Costituzionale.
Le "barriere" legislative alzate con la collaborazione dei legislatori non hanno retto alla mentalità dell'opinione pubblica, favorevole sia alle unioni di fatto che a una fecondazione artificiale più larga. E in democrazia è anche giusto così.
Personalmente mi brucia soprattutto la scelta fatta in occasione del referendum del 2005 sulla legge 40, quando la Chiesa organizzò banchetti sul sagrato con una esplicita indicazione di voto, anzi di non voto. Io fui tra i pochi contrari già allora: secondo me la Chiesa non dovrebbe mai schierarsi in un voto di alcun tipo. Si dovrebbe fare informazione, magari anche orientata ("la Chiesa pensa così, così e così, pensa che certe cose siano giuste e altre sbagliate, per questo e questo motivo"), ma sempre fermarsi un passo prima dell'indicazione esplicita di voto. Il voto resta prerogativa del cittadino cristiano responsabile e informato, e della sua coscienza.
Tra l'altro il dare indicazione esplicita di voto crea un precedente. Mi aspetto che quindi i vescovi possano intervenire in altre votazioni. Perché non si è data un'indicazione, per esempio, sul referendum sulle trivelle? O sul referendum costituzionale? E perché no, magari anche per le elezioni? Qui ci cacciamo in un cul de sac: se la risposta è che quel referendum sulla legge 40 non era "come tutti gli altri", per via dell'argomento, allora cadiamo esattamente nell'equivoco denunciato da Bruni: la Chiesa italiana, con quella scelta, si è scelta un argomento considerato "sotto la propria giurisdizione", ma così ha finito per ghettizzarsi, per "perdere giurisdizione" su tutti gli altri argomenti.
Secondo errore di quell'occasione fu la scelta del non voto. Evidentemente una scelta strategica, per sfruttare i voti dell'astensionismo dilagante. Secondo me fu una scelta opportunistica e un po' scorretta; tra l'altro l'astensione non è mai educativa. Tra l'altro riguardando i dati vedo che quei referendum videro una quota non trascurabile di "no", circa mezzo milione, che - vista la campagna impostata - erano probabilmente altri cristiani che la pensavano come me. La scelta corretta sarebbe stata informare, come ho già detto, e lavorare per avere un chiaro no dagli elettori, che avrebbe blindato la legge molto più di quel che fece l'astensione. Infatti se avessero vinto i "no" ci sarebbe stata una volontà popolare chiaramente espressa, e difficilmente la Corte Costituzionale avrebbe potuto non tenerne conto nelle sentenze successive. Certo, sarebbe stato un rischio: si rischiava di favorire il quorum, con l'incognita se i "no" poi sarebbero stati abbastanza. Però l'eventuale sconfitta sarebbe stata una sconfitta "onesta", con una fotografia più democratica del volere popolare. Scegliendo l'astensione invece c'è stata una vittoria surrettizia, di cui alcuni cattolici si sono fatti belli sovrastimando il peso della Chiesa nell'Italia del 2005. Dieci anni dopo ci ritroviamo con una legge smontata pezzo per pezzo, e nel frattempo abbiamo perso dieci anni nella valutazione dello stato della cultura cattolica nel Paese.
Fa piacere che, più di dieci anni dopo, anche Avvenire se ne accorga. Questo ci permette di aprire una parentesi sul "quotidiano dei vescovi". Ricordo che nel 2005, qualche giorno dopo il referendum, quando questo era già abbondantemente uscito dall'agenda, arrivarono i risultati ufficiali, comprensivi del conteggio dei voti degli italiani all'estero (altro bacino di astensione abituale). Avvenire titolò sottolineando che con i nuovi dati quel referendum era quello che aveva avuto la minore partecipazione della storia, attaccandosi a qualche decimale e spacciandolo come un trionfo della cultura della vita.
Anche durante la Settimana Sociale, quando era evidente in sala stampa l'assenza di testate non cattoliche (segni palese di irrilevanza), e quando anche qualche piccolo problema di organizzazione si palesava tra i delegati, la copertura di Avvenire era sempre in toni entusiastici. La stessa cosa - ricordo - accadeva per le Giornate della Gioventù a cui partecipai da giovane.
Avvenire fa molto per l'informazione, di solito è fatta molto bene, fa anche un gran lavoro culturale, ma quando si tratta di iniziative ecclesiastiche pecca decisamente di obiettività, e qualche volta risulta involontariamente simile alla Pravda...
Tornando agli anni Duemila, tra i danni collaterali di quell'approccio verticistico al rapporto Chiesa-politica-società c'è anche lo sdoganamento della Lega (allora in quanto partner di un governo "amico"). Oggi si vede che i collateralismi politici sono pericolosi anche perché poi i partiti evolvono di testa loro, e non sempre in modo prevedibile: la Lega di Pivetti o Maroni non è quella di Salvini, ma ormai lo sdoganamento c'è stato.
Il problema più grosso, comunque, resta quello della desertificazione del panorama cattolico per quanto riguarda i laici impegnati in politica, in società, anche nella Chiesa. Avere un dirigismo così marcato ha impedito la crescita di una classe "dirigente" di laici formati, autonomi, impegnati, non solo in politica, ma anche nella Chiesa. La mancanza di un'opinione pubblica, di un dibattito all'interno dei cattolici (come sostiene il prof. Giuseppe Savagnone) ha impedito di essere lievito.
(continua)
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