Prosegue da qui e si conclude.
Per
concludere, alcune osservazioni personali. Secondo me questa Settimana Sociale
ha posto fortemente il tema dell’irrilevanza dei cattolici nel dibattito
pubblico. C’erano pochi giornalisti e pochi politici (oltre a chi doveva
intervenire, si sono intravisti Lupi e Zanda – che ha semplicemente accompagnato
Gentiloni – mentre Mariastella Gelmini ha partecipato ai lavori per due
giorni). Chi è più esperto di me mi dice che nelle edizioni precedenti la
partecipazione era molto più nutrita.
Può
nascere la tentazione di superare questo problema bypassando il livello
pubblico e elaborando proposte da passare direttamente dal comitato scientifico
organizzatore al governante di turno, in un dialogo diretto ma un po’ elitario:
mi sembra un approccio (tra l’altro non nuovo, ma già tentato negli anni 2000)
forse più “facile” ma non di lungo respiro.
Bisogna
invece pensare a un progetto culturale che possa parlare non confessionalmente
a tutta la società italiana. Per questo potrebbero essere utili alcuni
accorgimenti comunicativi (per esempio perché non aprire al pubblico alcuni
momenti delle Settimane?), ma anzitutto bisogna che si formino i cristiani per
essere lievito nella società. Uno dei leitmotiv delle giornate di lavoro
è stato l’affermazione di papa Francesco nella Evangelii gaudium secondo
cui l’importante è avviare processi, non occupare spazi. Mi sembra che il
dialogo diretto con i politici ricada ancora nella prospettiva dell’occupazione
di spazi, del piantare bandierine. Bisogna invece avviare un processo di cambio
di mentalità, sia nel lavoro che nelle comunità cristiane. Quanti cristiani
sanno cosa sono le Settimane Sociali? Quanti conoscono le conclusioni a cui
siamo arrivati? Quante parrocchie hanno detto una preghiera al riguardo? Quanti
prendono in considerazione l’idea che – proprio perché si è cristiani, non
nonostante si sia cristiani – è il caso di impegnarsi nel miglioramento della
nostra cosa pubblica, intesa nel senso più ampio possibile?
Riporto
un aneddoto che ho condiviso con il mio tavolo di lavoro. Un mese fa ero di ritorno
da Roma, in auto. In un autogrill, sulla porta di un bagno, c'era questo slogan
pubblicitario: "Usiamo prodotti che rispettano la natura".
Evidentemente era uno slogan della ditta a cui è affidata la pulizia dei
servizi igienici. E’ passato un addetto. Avrà avuto 50-55 anni, sembrava
piuttosto male in arnese. Di solito queste ditte sono cooperative. Mi sono
chiesto: quando avremo cartelli con scritto: “Paghiamo salari che rispettano le
persone”? Perché sul pubblico dovrebbe far più presa il richiamo bucolico alla
natura che quello alla persona?
E’ questo
il cambio di mentalità di cui abbiamo bisogno. Rimettere al centro il lavoro permetterebbe di
ripensare anche l’orientamento scolastico, convincendo anche i genitori che non
è un’offesa che il figlio faccia un istituto professionale o tecnico. Per questo cambio di mentalità
passano il “voto con il portafoglio”, su cui insiste sempre il prof. Leonardo Becchetti,
e l’introduzione di buone pratiche nell’economia come nelle nostre parrocchie. Per
l’ecologia cominciammo a “avviare processi” educativi venticinque anni fa, e siamo
arrivati a buon punto: oggi vogliamo detersivi che non inquinano. Bisogna
mettere in campo un’educazione simile anche per l’ecologia umana, partendo da
noi cristiani, testimoni credibili di buone pratiche dalle nostre parrocchie al
Paese intero.
Vedremo
come andrà la ricezione nelle diocesi.
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