martedì 7 novembre 2017

Diario della Settimana Sociale (4)



Prosegue da qui e si conclude.

Per concludere, alcune osservazioni personali. Secondo me questa Settimana Sociale ha posto fortemente il tema dell’irrilevanza dei cattolici nel dibattito pubblico. C’erano pochi giornalisti e pochi politici (oltre a chi doveva intervenire, si sono intravisti Lupi e Zanda – che ha semplicemente accompagnato Gentiloni – mentre Mariastella Gelmini ha partecipato ai lavori per due giorni). Chi è più esperto di me mi dice che nelle edizioni precedenti la partecipazione era molto più nutrita.
Può nascere la tentazione di superare questo problema bypassando il livello pubblico e elaborando proposte da passare direttamente dal comitato scientifico organizzatore al governante di turno, in un dialogo diretto ma un po’ elitario: mi sembra un approccio (tra l’altro non nuovo, ma già tentato negli anni 2000) forse più “facile” ma non di lungo respiro.
Bisogna invece pensare a un progetto culturale che possa parlare non confessionalmente a tutta la società italiana. Per questo potrebbero essere utili alcuni accorgimenti comunicativi (per esempio perché non aprire al pubblico alcuni momenti delle Settimane?), ma anzitutto bisogna che si formino i cristiani per essere lievito nella società. Uno dei leitmotiv delle giornate di lavoro è stato l’affermazione di papa Francesco nella Evangelii gaudium secondo cui l’importante è avviare processi, non occupare spazi. Mi sembra che il dialogo diretto con i politici ricada ancora nella prospettiva dell’occupazione di spazi, del piantare bandierine. Bisogna invece avviare un processo di cambio di mentalità, sia nel lavoro che nelle comunità cristiane. Quanti cristiani sanno cosa sono le Settimane Sociali? Quanti conoscono le conclusioni a cui siamo arrivati? Quante parrocchie hanno detto una preghiera al riguardo? Quanti prendono in considerazione l’idea che – proprio perché si è cristiani, non nonostante si sia cristiani – è il caso di impegnarsi nel miglioramento della nostra cosa pubblica, intesa nel senso più ampio possibile?
Riporto un aneddoto che ho condiviso con il mio tavolo di lavoro. Un mese fa ero di ritorno da Roma, in auto. In un autogrill, sulla porta di un bagno, c'era questo slogan pubblicitario: "Usiamo prodotti che rispettano la natura". Evidentemente era uno slogan della ditta a cui è affidata la pulizia dei servizi igienici. E’ passato un addetto. Avrà avuto 50-55 anni, sembrava piuttosto male in arnese. Di solito queste ditte sono cooperative. Mi sono chiesto: quando avremo cartelli con scritto: “Paghiamo salari che rispettano le persone”? Perché sul pubblico dovrebbe far più presa il richiamo bucolico alla natura che quello alla persona?
E’ questo il cambio di mentalità di cui abbiamo bisogno. Rimettere al centro il lavoro permetterebbe di ripensare anche l’orientamento scolastico, convincendo anche i genitori che non è un’offesa che il figlio faccia un istituto professionale o tecnico. Per questo cambio di mentalità passano il “voto con il portafoglio”, su cui insiste sempre il prof. Leonardo Becchetti, e l’introduzione di buone pratiche nell’economia come nelle nostre parrocchie. Per l’ecologia cominciammo a “avviare processi” educativi venticinque anni fa, e siamo arrivati a buon punto: oggi vogliamo detersivi che non inquinano. Bisogna mettere in campo un’educazione simile anche per l’ecologia umana, partendo da noi cristiani, testimoni credibili di buone pratiche dalle nostre parrocchie al Paese intero.
Vedremo come andrà la ricezione nelle diocesi.

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